Vincere! Evoluzione di un concetto politico da Berlinguer a Rovazzi

| L_Antonio

Andate a riascoltare una vecchia Tribuna Elettorale del 1972, con un Enrico Berlinguer appena eletto Segretario del PCI. La trovate su youtube. Non dice mai che vuole ‘vincere’ le elezioni. No. Dice che il partito deve puntare ad accrescere la propria ‘forza’. Lascia intendere che la ‘forza’ è politica, e che essa consente di rappresentare in modo adeguato i propri soggetti sociali di riferimento nelle istituzioni. La forza, dunque, il rapporto con i soggetti sociali, dice Berlinguer, non l’eventuale ‘vittoria’ elettorale in sé. Il concetto lo spiega con queste parole: “Ogni operaio, ogni lavoratore, ogni pensionato, chiunque sia vittima di un sopruso sa che le sue sorti dipendono in larga misura dalla forza del partito comunista. Quanto più noi saremo forti, tanto più sarà possibile migliorare le condizioni dei lavoratori, a cominciare dai pensionati”. Dietro queste parole c’è una convinzione radicata, e c’è un pezzo essenziale di cultura politica, per la quale i partiti sono ponte, asse tra società e istituzioni. Essi rappresentano, danno voce, interpretano, governano il sociale. E le istituzioni, di riflesso, sono luogo di dialogo, di confronto anche aspro, di mediazione politica, minuziosa e articolata, e non ‘spazi’ lisci di cui il ‘vincente’ diventa padrone assoluto, autorizzato dal voto a ‘occuparli’ per l’intera legislatura, in nome di una supremazia dell’esecutivo e, vieppiù, del premier.

Pensate adesso che cosa sono diventati quella cultura politica e quel pensiero, e come l’epoca li abbia scardinati e ‘rottamati’. Il potere che ‘rappresentava’ è divenuto il potere che ‘decide’. Si è verticalizzato. L’esecutivo è divenuto tutto, il Parlamento una sorta di ancella. La parola-chiave è ‘vincere’, ossia conquistare il comando (‘Andiamo a comandare’ direbbe Rovazzi). Tutto ciò non è avvenuto per caso, ma per una serie di concause politiche: la svolta maggioritaria, la legge sui Sindaci, l’enfasi sull’esecutivo e sulla governabilità, il leaderismo, la personalizzazione della politica portata agli estremi, l’avvento della comunicazione-politica, il ruolo dei media, la fine dei partiti di massa e, in alternativa, la comparsa di organizzazioni elettorali, contenitori asettici, partiti-azienda, personali, liquidi, gassosi, del Capo, il predominio del linguaggio sportivo e dell’idea di agonismo. Pensateci: è tutto qui, sintetizzato in queste formule, l’influsso pervicace del berlusconismo nelle nostre fila. Sono tutti fattori che hanno rivoltato il guanto, troncando le radici sociali dei partiti, che hanno parallelamente rivolto la loro attenzione alla punta della piramide (esecutivo, giunte locali). Un ribaltamento scritto anche nel maggioritario e in uno spirito nuovo, di comando, per il quale la società perdeva il proprio carattere di massa, per mutarsi in un’accozzaglia di individui-consumatori, a cui rivolgersi come imbonitori nell’intento di catturare consenso senza richiedere alcuna reale partecipazione alla vita pubblica.

Il Pd è un emblema di questa rivoluzione. Dal Lingotto in poi il tema divenne la ‘vocazione maggioritaria’, il tentativo di assorbire l’intero universo culturale e sociale al fine di porre una sostanziale ipoteca sul governo, stabilizzandolo per l’intera legislatura. Quel mutamento fu anche l’effetto di una ‘americanizzazione’ della politica nostrana. Il leader divenne il riassunto del partito, la sua piramidale ragione sociale. Divenne il naturale candidato alla poltrona di premier, esponente finale di una proiezione ‘vincente’ al governo come mai era stato a sinistra. Non più alleanze, non più rappresentanza sociale, ma solo ‘vincere’ quale unica ragione politica. L’Italicum doveva essere il cappello ultimo di questo processo. Il ‘premio’ avrebbe cancellato pure il fantasma finale della rappresentanza, avrebbe consegnato il Paese per cinque anni a una più che probabile forza di minoranza, assurta a Palazzo Chigi per ragioni sintetizzabili con  una metafora sportiva: in quanto vincitrice della ‘finalissima’. È chiaro che queste scelte hanno condotto a un ulteriore impoverimento della politica quale sistema dei partiti, della mediazione istituzionale e della partecipazione. E a un rafforzamento dell’idea che il leader, tanto più se mascellare, possa da solo sciogliere tutti i nodi. È da qui, dal ribaltamento di questo andazzo, che si dovrà ripartire per riconsegnare la politica alla società, ai cittadini, e restituire ‘forza’ reale, non chiacchiere e distintivo, ai partiti.

Alfredo Morganti Giorgio Piccarreta

Alfredo Morganti è da sempre appassionato di politica e di sinistra. Ama scrivere. Suona la batteria. Da qualche tempo si è scoperto poeta. Giorgio Piccarreta è funzionario del Comune di Roma. Coltiva orti, letture, l’amore e, fin da piccolo, la passione per la politica. Di sinistra.