Dal centralismo democratico al Concilio, perché la scissione non è frazionismo

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Ho cercato di capire il carattere scissionista di Articolo Uno sin da quando, in diretta, ho ascoltato le parole di Bersani ai microfoni di Lucia Annunziata, in piena assemblea nazionale del Pd. Mi avevano colpito il suo “aspettare le repliche” dell’allora segretario dimissionario e quella richiesta di “poter discutere sul serio”, arrivando al punto da dire: “Non avremo ragione per definizione, ma potete lasciarci discutere una volta?”. Da quel 19 febbraio sono passati mesi, ed è chiaro che la questione “scissionisti” è un tema cruciale negli sviluppi futuri di Articolo Uno (e, gioco forza, del centrosinistra italiano). Su di essa si giocano i rapporti del Movimento col Partito Socialista Europeo, il cui presidente ha dichiarato che: “non ci può essere spazio nella nostra famiglia per forze politiche che minano l’unità del nostro movimento”. Ancora più importante però è la capacità (che il Movimento dovrà maturare) di farsi comprendere da quella (significativa) parte dell’elettorato di sinistra che è tradizionalmente avversa ai frazionismi.

La questione “scissionisti” non interpella però solo coloro che ad Articolo Uno sono arrivati dopo una militanza nel Pd. Tutti gli aderenti devono infatti dar conto delle ragioni che li fanno sperare nel Movimento come soggetto alternativo al Pd e capace di contribuire ad una riscoperta dell’autentico e radicale spirito dell’Ulivo. Condivido l’idea (espressa a Napoli da Stefano Quaranta) che “una forza politica nuova debba avere un’analisi condivisa del passato”; io però un’analisi condivisa sulla scissione non l’ho trovata, e per questo ne ho ricercata una, che sottopongo all’attenzione di tutti gli interessati.

La diversità di posizioni sul tema della “scissione” è, perfino tra gli esponenti di rilievo del Movimento, evidente. Tutti concordano sulla questione dei “valori della sinistra” che il Pd avrebbe smarrito nella presa di fondamentali decisioni per il Paese (dal Jobs Act alla Buona Scuola, dai bonus alla riforma costituzionale). Più sfumato è però il peso attribuito alla questione della libertà di discussione all’interno del Pd, che io sarei invece portato a ritenere dirimente. Il problema è evidente: se la scissione è fatta per il tradimento di certi valori, andava fatta in flagranza. Se invece il problema era la democraticità interna del Pd, serve che si spieghi chiaramente perché questa assenza di democrazia era così seria da giustificare l’abbandono di un progetto comune, e un abbandono con potenziali esiti nefasti sulla tenuta del paese. Vi sono poi anche esponenti di Articolo Uno che, in fondo, ritengono il problema non sia né una perdita di valori degli ultimi anni, e neanche una questione di discussione interna al Pd, quanto invece un problema originario al progetto dell’Ulivo come “ unione di due realtà diverse dal punto di vista culturale e politico”.

Dal di fuori, questa visione è fatta propria da coloro che sostengono si tratti di una frattura inevitabile, che in fondo ad andarsene siano stati i “comunisti”, o comunque i “non democratici”. Coloro che criticano la fattibilità originaria del progetto dell’Ulivo lo descrivono come una fusione a freddo che, come una saldatura mal realizzata, era sin da principio destinata a fessurarsi, e poi a cedere. Questo può essere vero in termini di patrimoni dei partiti (che non a caso non furono messi insieme, bensì destinati a una serie di distinte fondazioni che facevano e fanno capo alle relative nomeklature). Può essere anche vero se si guarda a molte persone che, con storie e visioni diverse, confluirono nel Pd senza scambiarsi reciprocamente i tesori delle proprie culture politiche di appartenenza. Se però guardiamo alle idee, a me pare che – quasi sotto traccia – è andata crescendo una forte consapevolezza di come tradizione marxista e tradizione cristiana compongano un dialogo estremamente fecondo e capace di rispondere alle grandi sfide del nostro presente.

Ma se non è per le idee, se nessun provvedimento (né il Jobs Act e neppure la riforma costituzionale) da solo giustifica la scissione, e se le tradizioni culturali e politiche che l’Ulivo intendeva fondere non si sono rivelate reciprocamente repulsive, allora come possiamo comprendere la “scissione”? Forse che davvero, come sostenuto da Tomaso Montanari, la “principale preoccupazione” dei fuoriusciti sia quella “andare in Parlamento per garantire un futuro materiale ai loro apparati”?

Per capire la “scissione non scissionista” credo sia fondamentale capire il centralismo democratico, alla luce tanto del dialogo fra Lenin e Trotskij quanto del pensiero cristiano (rileggendo la Dichiarazione del Concilio Vaticano II Dignitatis Humanae). L’avversione verso il frazionismo è un’eredità del concetto di centralismo democratico. Che gli statuti di tutti i partiti comunisti abbiano sempre represso duramente il frazionismo è vero, però questa repressione era solo uno degli elementi costitutivi del centralismo democratico. Se analizziamo il testo degli statuti dei partiti comunisti notiamo infatti che il divieto di “minare l’unità del nostro movimento” non è un principio assoluto, ma relativo. Esso è un corollario della democrazia interna al partito, democrazia che Berlinguer rivendicava come “valore storicamente universale”. La tradizione comunista esige sì di non frazionarsi, ma il comunismo italiano non intende questo come conseguenza della necessaria “subordinazione della minoranza alla maggioranza, dell’individuo all’organizzazione e del partito al Comitato Centrale” (questa è l’esperienza cinese, nello Statuto del 1969). Il comunismo italiano si fonda sull’inclusione e sulla discussione, una discussione che garantisce la democraticità del partito se, e nei limiti in cui, è organizzata e vissuta in modo tale da fornire a tutti la possibilità concreta di convincere gli altri, di guadagnare i compagni alle proprie idee. L’elemento dialogico, la compenetrazione del ragionamento che si traduce in coscienza condivisa, è la condizione di esistenza della democrazia interna, che viene prima del centralismo e alla quale il secondo è funzionalmente subordinato. Riassumendo: il centralismo deve garantire il funzionamento della democrazia, e non viceversa. Solo verificato il soddisfacimento di questo requisito, la maggioranza potrà chiedere alla minoranza di rispettare le decisioni prese e di sentirle come proprie riconoscendo, come sostenuto da Montesquieu (e ricordato da Solari), che “la Ragione (ovvero la scelta più sensata, più convincente) ha parlato per bocca della maggioranza”.

Questo è proprio quello che intendeva Trotskij che, ne Il nostro dovere politico (1904), risponde a Lenin (e in particolare allo scritto – Che fare? – del 1902, in cui si delinea il nucleo originario del centralismo democratico) affermando che il centralismo può essere democratico solo a condizione che si parli, si discuta, “ovunque e ogni giorno, senza sosta ed incessantemente”, di una discussione non fatta “frettolosamente, per il solo rispetto delle forme” ma volendo creare quel vero consenso, quella fusione a caldo di “vere convinzioni” che è unità come consapevolezza comune perché costruita insieme. La democraticità di un partito (e questo vale per tutti quelli che si vogliano rifare alla tradizione del comunismo italiano) dipende dalla qualità della discussione che precede il momento della sintesi e della decisione. Senza la “democrazia della discussione”, la “democrazia della decisione” (per citare il professor Corsini) diventa una farsa.

Nel PD è un fatto storico che gli organi dirigenti abbiano, come nel caso del referendum sulle trivelle, dato il “ciaone” alla minoranza, o che ne abbiano apostrofato i componenti come “gufi”, o che ancora sia stata evasa la richiesta di riflessione collegiale per, come auspicato da più parti in sede di assemblea nazionale, “correggere la linea” dopo che (dalle elezioni regionali a quelle amministrative per poi passare al referendum) i segnali di una necessità di correggere (se non invertire) la rotta c’erano tutti. Se leggiamo giustamente tutti questi segnali, e li incrociamo con le dichiarazioni di Bersani e di quei tanti militanti e dirigenti del Pd che (anche senza scindersi) ammettono che le occasioni di vero dialogo si sono radicalmente ridotte, troviamo indizi sufficienti per ritenere che il Partito democratico ha notevolmente perso in democraticità, e lo ha fatto a partire dalla concezione di democrazia che già era del Pci.

Così compresa la scissione non è l’azione di una minoranza irresponsabile, bensì una decisione legittima di fronte ad un eccessivo logoramento della democrazia interna al partito, in favore di un centralismo crescentemente dimentico della propria funzione di servizio alla democrazia come dialogo inclusivo e plurale. Questa ricostruzione, che a me pare la più fedele al dato storico della scissione e alla tradizione ideale del comunismo italiano, non risponde però ad un ulteriore quesito, quello sollevato da Veltroni sulla “irresponsabilità” della scissione. Per quanto fondata da motivazioni profonde, legittime e di grande serietà, può forse tacciarsi la scissione di inopportunità? Gli scissionisti mettono cioè rischio la sinistra (e con essa il Paese, almeno attenendosi alla ricostruzione di Veltroni) “solo” per garantire la democraticità interna della sinistra, o del centrosinistra?

A me pare di no. Dall’analisi delle interviste e degli interventi disponibili, la scissione è motivata da un senso di responsabilità verso il Paese, verso quel paese che il Pd “si porta a spasso” nella sua corsa “futurista” (per citare prima Bersani e poi D’Alema). In questo il “tempo” della scissione testimonia una decisione responsabilmente rimandata il più a lungo possibile. Gli scissionisti scindono – almeno stando alle loro dichiarazioni – “perché il Paese viene prima del partito”, e un partito che accetta un congresso con tempi tanto contingentati da minare la democrazia sostanziale (come possibilità di vincere gli altri alle proprie idee in una vera e sincera discussione assembleare) è un partito che allo stesso modo gestirà il governo del paese. Il problema quindi non è il congresso, e neanche solo la mancanza di democrazia sostanziale del Pd. Il problema è che tanto meno un partito (di governo e che aspira ad esserlo) è democratico, tanto più facilmente prenderà decisioni sbagliate, sbagliate per il partito ma soprattutto sbagliate per il Paese.

Il legame fra effettività della democrazia ed efficiente realizzazione del bene comune è un dato assodato, dalla teoria politica fino alla gestione aziendale, tanto che è palese perfino nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. In questo senso capiamo il “valore storico universale” della democrazia per Berlinguer: è universale perché ha valore ovunque, dal condominio alle decisioni in famiglia, fino ai partiti e al governo di un paese. La vera discussione non è mai un tempo morto o un’attività inutile. Essa garantisce che la decisione finale sia la migliore possibile. Chiarito il problema della discussione come requisito della democraticità del centralismo, ed il valore della democrazia come metodo di più efficiente presa delle decisioni (che garantisce si facciano meno errori nel perseguire un bene che sia veramente comune, e che soprattutto si possano correggere in tempi adeguati), resta da chiarire cosa c’entri il pensiero cristiano, e in particolare il Concilio Vaticano Secondo.

La discussione sulla democrazia ha anche un valore ontologico, che dipende dalla dignità dell’essere umano come persona, unicità irripetibile dotata di raziocinio e capacità di distinguere bene e male, e che per questo merita di agire secondo libere convinzioni, e non per costrizioni esteriori. Su questo punto – bisogna ammetterlo – il pensiero marxista è sfumato: in fondo il sotto-proletariato (essendo privo di coscienza di classe) è in qualche modo meno consapevole e, per alcuni, ha conseguentemente bisogno di essere guidato ed il suo contributo alla decisione sulla meta comune ha meno valore. La Chiesa Cattolica ha una visione antropologica diversa, ed oggi più diffusamente compresa che in passato. La Chiesa crede nella coscienza, come luogo in cui Bene e Male sono in grado di parlare al cuore dell’uomo. Un ateo non crede a questa coscienza, evidentemente; ma non per questo arriva necessariamente a credere che non esistano il giusto e lo sbagliato e che, almeno limitatamente a certe situazioni (tipo la presa di decisioni collettive) non ci si possa avvicinare (tramite informazione, ricerca, discussione e confronto) a verità così largamente condivise da essere proponibili ed assumibili come universali (pensiamo – ad esempio – alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani). Per i cristiani la “verità” (tanto quella assoluta, quanto la verità come scelta eticamente più buona, come bene comune) va “cercata in modo rispondente alla dignità della persona umana e alla sua natura sociale: e cioè con una ricerca condotta liberamente, con l’aiuto dell’insegnamento o dell’educazione, per mezzo dello scambio e del dialogo con cui, allo scopo di aiutarsi vicendevolmente nella ricerca, gli uni rivelano agli altri la verità che hanno scoperta o che ritengono di avere scoperta”. Così si esprime il documento conciliare Dignitatis Humanae.

Quando Bersani dice che non accetta di stare zitto e chiede “potete lasciarci discutere una volta?” non domanda solo che si prendano decisioni nel modo che più ne garantisce la qualità finale (come situazione finale ove si massimizzano i benefici per il Paese). A me pare chieda qualcosa in più: che non si mortifichi la sua natura umana di essere pensante e razionale, che (come persona umana, foss’anche l’ultimo dei partecipanti all’assemblea) ha diritto di essere “aiutato nella ricerca per mezzo dello scambio e del dialogo”. Solo questo atteggiamento è conforme alla natura, alla vocazione spirituale (non in termini dogmatici ma in termini razionali di ricerca del bene) dell’essere umano; e “ciaoni” e “gufi” non sono certo strumenti di aiuto vicendevole. Questa visione antropologica si fonda sul concetto di coscienza come il “cuore” giudaico-cristiano in cui Dio parla agli uomini, e a ciascuno di essi. In questo senso, la coscienza non può essere rivendicata da chi, materialista storico, non crede in alcuna forma di metafisica.

La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo ci permette di creare un ponte fra le due anime del centrosinistra italiano. Essa definisce infatti gli esseri umani come “dotati di ragione e di coscienza”. La parola coscienza fu introdotta – in sede di comitato di redazione – per tradurre il termine ren (un principio fondamentale dell’etica confuciana che significa apertura agli altri, giusto rapporto fra gli uomini). In questo testo quindi, ma è uno spazio di dialogo con gli altri, di un dialogo necessario ad uno sviluppo autentico dell’umanità degli essere umani. In questa accezione, che noi ci si rifaccia a Marx o a Cristo, gli scissionisti di Articolo Uno non possono essere qualificati come scissionisti, quanto invece come obiettori di coscienza democratica. Essi credono cioè nel valore storico universale della democrazia, nella democrazia come discussione aperta e piena fra esseri umani, e concepiscono questa apertura e questa pienezza come un corollario della stessa natura umana che nessuno, in virtù di nessuna unità o interesse, può calpestare. Come la schiavitù è illegittima, anche quella dello schiavo consenziente, così l’obbedienza alla maggioranza è sempre illegittima se la democrazia perde la sua necessaria polifonia perché la minoranza viene privata del dialogo. Così intesa la questione della scissione, a me pare che Articolo Uno non sia un movimento di scissionisti ma, coerentemente alle doppie radici ideali dell’Ulivo, di obiettori di coscienza democratica.

Gabriele D'amico

Torinese, avvocato, appassionato di diritto ed economia della cultura, dottorando fra Berlino e Gerusalemme in diritti umani e diversità culturale. Consapevolmente olivettiano, credo nella capacità umana di superare la gregarietà del sistema limbico e ragionevolmente spero in un futuro di sviluppo umano integrale.