Calabrese, classe 1933. Allievo di uno dei pesi massimi del diritto civile italiano del ‘900, Rosario Nicolò, Stefano Rodotà guadagna presto i galloni del prestigio accademico ma non con il percorso classico della gavetta universitaria e forense. Lettore troppo avido, curioso e brillante. Divora tutto: diritto, storia, sociologia, scienza della politica.
Più che la Germania (tappa considerata obbligata per i giuristi, nell’approfondimento comparato post-laurea), privilegia gli Stati Uniti, il cui panorama giuridico aveva conosciuto, dagli anni 50 ai primi 70 dello scorso secolo, una nuova fioritura, in virtù delle dirompenti sentenze della Warren Court, vale a dire la Corte suprema americana egemonizzata dai giudici di sinistra (eguaglianza a prescindere dal colore della pelle, libertà di espressione, diritto alla privacy, aborto, garanzie degli imputati). Tra i primi giuristi italiani, del resto, legge e comprende il saggio del 1890 di Louis Brandeis e Samuel Warren, The right to privacy inteso come the right to be let alone (il diritto a essere lasciati soli) e a controllare quindi non solo le informazioni su di sé in uscita ma anche quelle altrui in entrata.
Tornato in Italia, eccolo sfornare saggi eterodossi e innovativi sui danni civili e sulla proprietà (che chiama, con Beccaria, il terribile diritto). Legge la Costituzione repubblicana in modo genuino, fresco, avvincente. Saluta con entusiasmo l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, che vieta i controlli a distanza nelle fabbriche.
All’università ci si accorge del suo talento di studioso e di docente: aule sempre affollate, lezioni legate all’attualità, disponibilità per gli studenti, prospettive originali. Quando Scalfari fonda Repubblica, lo chiama a collaborare.
Nel 1979 entra in Parlamento con la pattuglia degli indipendenti di sinistra, eletti nelle liste del Partito comunista italiano. E nei primi anni ’80 partecipa alle riflessioni del gruppo di Laboratorio Politico, l’antesignano dei think tank della sinistra. Fiero avversario del clericalismo e nemico giurato di Craxi, nel suo percorso, l’ossessione è la tutela della persona. La sfera di ognuno di noi – insegnava – deve essere protetta dall’invadenza dei potenti, che hanno due vie per attentarvi: attaccarla frontalmente o lasciare che le potenzialità di ognuno di noi si spengano soffocate dall’ingiustizia distributiva e dalle scarse opportunità.
Per questo si appassionò nella lotta parlamentare sulla riforma del voto segreto, nel 1988. Craxi e De Mita volevano farla finita con i franchi tiratori che, a parole, sostenevano il loro a partito e poi, in segreto, mandavano sotto governo e maggioranza. Il PCI capiva che togliere il voto segreto significava ridurre i margini di manovra del negoziato parlamentare. Ma è Stefano Rodotà ad apprestare gli argomenti culturali e tecnici per far sì che la battaglia non sia perduta rovinosamente. Sostiene che – sì – il voto può e deve essere palese quando è in gioco la spesa pubblica; ma deve restare segreto quando si tratta di votare in materie sensibili come i diritti delle persone. Finirà proprio così.
Per gli stessi motivi è molto attento a denunziare con forza i tentativi di ridurre l’indipendenza della magistratura: è convinto che una sana cultura della giurisdizione è un baluardo per la difesa dei diritti individuali.
Con il PDS entra nel partito e ne diventa presidente. Nel 1992 è vicepresidente della Camera dei deputati e si trova a proclamare Scalfaro presidente della Repubblica. Ma l’undicesima legislatura repubblicana è la sua quarta e ultima.
Torna agli studi e al circuito internazionale: è sulla breccia dell’analisi cosmopolita e lungimirante sulla bioetica e la tecnopolitica.
Nel 1996 la sorte lo ripaga degli sforzi intellettuali di una carriera. Viene approvata la legge sulla protezione dei dati personali e istituita l’autorità garante. Lui ne viene nominato presidente e svolge due mandati. Inocula così nella società italiana il principio che nel villaggio globale, sempre più pregno di meccanismi potenti di stoccaggio di dati e di rielaborazione di messaggi, deve rispettare la persona, il consenso che essa deve poter negare (e la correttezza che essa deve esigere) al possesso altrui dei propri dati. Nel suo pensiero questo vale per le schedature di ordine pubblico, per gli indirizzari pubblicitari, per le grandi imprese che trattano i big data. (Rodotà non ha mai sostenuto però che la privacy fosse un diritto assoluto e che prevalesse sullo scrupoloso e coraggioso diritto di cronaca e sul diritto a essere informati).
Nel 2000, il governo italiano lo indica nel comitato ristretto che deve redigere la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (la c.d. Carta di Nizza), un testo dalla prosa nitida come poche, che ora fa parte – accanto ai Trattati – della Costituzione europea.
Il resto è l’oggi. Sull’attualità è sempre puntuale. Leggerlo restituisce la sua acutezza e il suo sguardo sprovincializzante. La Costituzione è – per dirla con Ciampi – la sua Bibbia. Sulla riforma Renzi-Boschi si schiera subito per il NO e fino all’ultimo ci racconta che il futuro è bello e complesso, ricco e insidioso. Bisogna andarci incontro attrezzati.