Il divieto della tortura e di altre forme di pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti è oggetto di molteplici Convenzioni internazionali, anche ratificate dal nostro Paese. Peraltro, lo stesso articolo 13, comma 4, della nostra Carta costituzionale stabilisce “E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”.
In particolare, a livello internazionale, la Convenzione delle Nazioni Unite del 1984, e ratificata dall’Italia ai sensi della Legge 498/88, all’articolo 1 definisce il crimine della tortura, come «qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito». Ed è la stessa Convenzione a precisare che, ai fini della qualificazione del reato di tortura, l’azione deve essere posta in essere da un pubblico ufficiale “o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito” e, all’articolo 4, che ogni Stato Parte è tenuto a vigilare affinché tutti gli atti di tortura vengano considerati quali trasgressioni nell’ambito del diritto penale (interno).
L’esplicita previsione del reato di tortura, dunque, oltre che a corrispondere ad un preciso obbligo giuridico internazionale, chiarisce con nettezza quali siano i limiti dell’esercizio della forza, nonché i limiti dell’esercizio dei pubblici poteri rispetto ad esigenze investigative o di polizia.
E sono anni, più di 28, che l’Italia, al riguardo, è inadempiente.
I gravi fatti di cronaca, in particolare degli ultimi 17 anni, e rispetto ai quali vi sono ancora procedimenti in corso – e in assenza di una specifica fattispecie che punisca condotte di tal guisa – hanno costituito uno sprone per un acceso dibattito, in Parlamento e nel Paese, per arrivare (periodicamente) alla “quasi” approvazione definitiva di provvedimenti sul tema che, almeno finora, non sono divenuti legge dello Stato. In almeno 4 legislature.
Ci risiamo. In questa diciassettesima Legislatura, abbiamo una nuova occasione per ovviare a tale grave lacuna del nostro ordinamento.
Il testo attualmente all’esame della Camera dei deputati – tornato dal Senato radicalmente modificato – presenta, tuttavia, dei limiti.
Nell’impostazione della fattispecie si prevede, innanzitutto, che il reato di tortura sia un reato generico, e non proprio, del pubblico ufficiale.
Per la qualificazione di una condotta come tortura, si richiedono più violenze, più minacce. E gravi. O l’agire con crudeltà.
Non solo. Per l’integrazione della fattispecie è, altresì, necessario che queste cagionino acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico e, si badi bene, il fatto deve essere commesso mediante più condotte o deve in ogni caso comportare un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.
Questi i punti che rendono il testo debole, di difficile applicazione, e rispetto ai quali si è cercato di introdurre correttivi nell’iter del provvedimento, sia alla Camera, sia al Senato. Una formulazione della fattispecie non troppo aderente alla definizione che, del reato di tortura, dà la Convenzione Onu del 1984.
In riferimento al testo in esame è anche intervenuto il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, in una lettera inviata a Presidenti di Camera e Senato, ai Presidenti delle Commissioni Giustizia dei due rami del Parlamento, nonché al Presidente della Commissione straordinaria per i diritti umani del Senato. In particolare – secondo Nils Muižnieks – alcuni aspetti del provvedimento si porrebbero in contrasto con la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, le raccomandazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, nonché con la Convenzione stessa sulla tortura.
E’ lo stesso Commissario Muižnieks a paventare che, in base ad un testo in tal modo articolato, la tortura possa restare tendenzialmente priva di sanzione, “creando così quindi potenziali scappatoie per l’impunità”.
Nelle more dell’introduzione di un reato che da ben 28 anni latita nel nostro ordinamento, quel che intanto accade nei tribunali è il declassamento di vere e proprie torture a semplici reati di maltrattamento, percosse o lesioni, con conseguente diminuzione del grado di responsabilità imputabile; gli atti di tortura che non provocano lesioni gravi -punibili solo a querela di parte – rischiano di rimanere impuniti, così come le sottili torture psicologiche non rientranti nel novero delle lesioni personali; non ultimo, l’applicazione di pene modestissime, profondamente inadeguate rispetto a siffatte condotte criminose.
Tutto ciò considerato, si prospetta come un passaggio delicatissimo quello che si consumerà la prossima settimana nell’Aula di Montecitorio.
L’auspicio è ovviamente che venga finalmente introdotto il reato di tortura nel nostro ordinamento, e nella definizione più aderente possibile a quella che offre l’articolo 1 della Convenzione ONU ratificata dall’Italia nel lontano 1989, una norma fondamentale a garanzia dei diritti umani di tutte e di tutti.