L’uomo che considera dolce la propria patria è ancora un tenero principiante; colui per il quale ogni territorio è come il proprio suolo natio è già forte; ma perfetto è colui per il quale l’intero mondo è come una terra straniera.
(Ugo da San Vittore)
A S.P. Huntington che teorizzava lo scontro di civiltà, ha risposto qualche anno dopo Amartya Sen; in “identità e violenza” il premio Nobel suggeriva la teoria delle “identità multiple” per la quale ciascun individuo può sentirsi allo stesso tempo cittadino di un paese, appartenente alla comunità di un altro luogo, credente in una religione e appassionato in modo persino identitario di una certa disciplina, senza che ciò causi nessuna contraddizione. Secondo Sen l’individuo, in modo naturale, sceglie qualche identità fra le molte di cui dispone far prevalere a seconda delle circostanze. In questo senso il tema della cittadinanza assume il valore di una delle molte identità che l’umano si dà. Tuttavia è un tema particolarmente significativo nella misura in cui la cittadinanza reca con sé diritti e doveri, pertiene alle identità immateriali e valoriali ma anche alle condizioni materiali della persona. Quando si parla di cittadinanza in generale e di ius soli in particolare, da un punto di vista giuridico si regolano essenzialmente le seconde, mentre da un punto di vita politico-ideologico si fa riferimento alle prime.
Proprio da un punto di vista politico la libertà, la cultura e la cittadinanza hanno questo che le lega indissolubilmente: passano da un riconoscimento reciproco che si può determinare solo in una comunità e sono il risultato di un processo di educazione. Infatti, non vi è libertà se si vive in un mondo di esasperato antagonismo individualistico nel quale si è costantemente impegnati nella guerra di tutti contro tutti, non vi è cittadinanza in democrazia se non si stringe un patto sociale in virtù del quale ciascun cittadino partecipa all’amministrazione e al governo delle cose comuni impegnandosi però anche a sottostare alle decisioni prese a maggioranza e non vi è altro che barbarie quando si sottovalutano i valori del dialogo, della risoluzione pacifica dei conflitti, dell’equità nella distribuzione di ricchezze e opportunità, nell’uguaglianza dei diritti fondamentali e nel rispetto dei doveri che ci investono innanzitutto in quanto esseri umani. Le comunità, e quindi anche le cittadinanze, in questo senso, sono innanzitutto immaginate: sodalizi di individui che non si conosco fra loro ma che si sentono legati. Per la lingua innanzitutto: secondo Benedict Anderson è stata la codificazione di una lingua comune uniformata a quella delle burocrazie a determinare il senso di comunità che ha dato origine nella modernità alle nazioni. Ci si riconosce istintivamente in una comunità che si comprende e dalla quale si viene compresi. La lettura e Gli eroi e i miti: sempre Anderson sostiene che ciò che ha formato una coscienza nazionale è stato il diffondersi dei romanzi ottocenteschi che proponevano l’epica di eroi riconosciuti come tali da un popolo. Allo stesso modo, la consultazione dei giornali ha formato una comunità immaginata – così la definisce il sociologo – che, nonostante la lettura del quotidiano sia un’azione individuale, si sente partecipe di fatti collettivi. Come spesso accade, per discutere di questioni che ci sembrano tutte contemporanee non c’è miglior cosa che rivolgersi ai classici. C’è un passo, tratto da “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar, ci parla di un impero divenuto più grande delle proprie ambizioni, multiculturale nei fatti, con enormi problemi di rapporto fra centro e periferia, con masse di diseredati ai margini e in casa, impegnato in guerre continue ai confini. Quando la cittadinanza venne concessa, tempo dopo, a tutti gli abitanti dell’impero, essa era il riconoscimento di uno status di sudditi. Oggi l’unica via per il mantenimento e la valorizzazione dei diritti – troppo spesso calpestati e ignorati in nome della globalizzazione finanziaria e della cessione di sovranità popolare a strutture sovranazionali più vicine agli interessi economici che a quelli democratici – di coloro che già sono cittadini italiani e di coloro che lo diverranno è tornare alle fondamenta. Ossia al ruolo della scuola pubblica come luogo di formazione di coscienza civile e come luogo di sapere critico che, come nell’articolo 3, rimuove gli ostacoli per lo sviluppo umano e per la partecipazione di ciascuno alla vita pubblica, mettendo tutti in condizione di poterlo fare a prescindere dalla situazione di provenienza. Urge ritrovare quello ius culturae che servirebbe non solo per acquisire la cittadinanza da stranieri, ma anche fra coloro che già la detengono e non sanno nemmeno cosa questo significhi.
“Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi: la mia prima patria sono stati i libri”. Questo è il passo delle “Memorie di Adriano”, ci sia da monito.