La misoginia non si cura con il biasimo sociale. Su una sentenza di “de-radicalizzazione”

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Quando la legge viene applicata con intenti che vanno al di la dell’aspetto sanzionatorio e sconfinano in terreni rieducativi improntati al politicamente corretto, non sempre gli effetti che sortisce sono significativi. Anzi.

Le cronache ci narrano di A.S., cittadino italiano di fede islamica, sottoposto a misure restrittive dall’autorità giudiziaria. Non è ovviamente in questione la libera scelta di fede di ciascun uomo, quanto la declinazione alquanto nefasta che costui ha voluto dare alla sua personale interpretazione dei precetti religiosi. I media infatti narrano di un uomo ‘radicalizzatosi’ nel corso degli anni, sino ad imporre il niqab alla moglie, definire ‘meritevole’ l’infibulazione delle bambine, la Sharia come legge che avrebbe voluto pienamente abbracciare.

Dopo essere stato segnalato perché sospettato di terrorismo, gli è stato imposto un percorso di de-radicalizzazione, una delle condizioni poste dal magistrato tra le prescrizioni per la sorveglianza. Sarà dunque obbligato a seguire lezioni sui di diritti costituzionali, sull’eguaglianza dei cittadini nella diversità culturale e religiosa, e sulla condizione della donna. Dovrà altresì studiare le conseguenze penali che comportano atti quali le mutilazioni rituali e i maltrattamenti in famiglia.

Intento sicuramente lodevole e pensato con giudizio, quello del magistrato. Tuttavia l’idea che sta alla base di questo ed altri processi di ‘rieducazione’ si fonda sul presupposto che poderose iniezioni di ‘bene ed educazione al rispetto della diversità’ possano temperare o eliminare dal corpo il ‘male’ della misoginia. Quasi si stesse parlando di batteri o agenti esterni che un buon antibiotico ha il compito di estirpare.

Quello che l’uomo di legge deve prendere in considerazione consiste nel fatto che che uomini come questo hanno già operato una canalizzazione di passioni preesistenti in forme codificate che le rendano accettabili ad una comunità, più o meno ristretta, più o meno riconosciuta, o ad un sentire sia esso parareligioso o politico. Le leggi che regolano l’animo di questi individui sono antitetiche, contrarie e vissute come superiori in forza morale alla lex degli uomini, dalla quale cercano di fuggire esercitando le prime in ambiti ben circoscritti. In questo caso, come in tanti altri simili che hanno riempito le colonne dei quotidiani, il sedimento dell’animo umano è già premiscelato con ingredienti quali omofobia, misoginia, angoscianti paure di confrontarsi con quel femminile che si ritiene spaventevole, deviante e pericoloso.

Le idee di questo uomo, dapprima manifestate pubblicamente, poi ritirate in seguito all’azione della magistratura, facevano già parte del suo essere, molto prima di essere addobbate con abiti parareligiosi. Uomini portatori di istinti di dominazione e sopraffazione sulla donna, che vivono in un consesso sociale nel quale è la legge dello stato a regolare i rapporti, sanno che rischiano un prezzo da pagare qualora diano libero sfogo a queste pulsioni. Non temono la reprimenda sociale, perché comminata da un sistema di valori ritenuto nemico, ma la privazione delle libertà di espressione e di libera circolazione, quelle sì, rifuggite perché capaci di impedire l’espressione del loro essere. Vulgo: l’uomo che gode nel picchiare le donne non teme certo i pareri dei vicini. Anzi, si fa forte della raccolta di attestati di solidarietà maschile reperibili ovunque. Teme la cella però, dentro la quale gli è impedito di malmenare altre donne.

Nella gran parte del mondo queste pulsioni feroci devono vivere all’ombra delle legge per non pagarne le conseguenze. Pensiamo ad una delle pratiche più raccapriccianti e criminali: l’infibulazione. Ciò che nel nostro consesso sociale entra direttamente nel campo dell’abominio.
Un uomo che odia la donna nella sua interezza, nel suo manifestarsi, nel suo crescere, nel suo fiorire, nel suo stesso esistere, trova nella parola codice ‘infibulazione’ un canale, ancorché atroce e inumano, codificato ed accettato da una comunità, per quanto ristretta e isolata essa sia, aspirando alla quale non gli sarebbe affibbiata l’etichetta di criminale, quanto di buon abitante di quella polis.

Dunque non si confonda causa con effetto. La misoginia è, purtroppo, spesso un fiore malefico che attecchisce sin dalla preadolescenza. Poco importa con quale codice si scelga di farla uscire allo scoperto, divenuti adulti. Non è dunque con processi rieducativi su larga scala che la si può estirpare dal legame sociale, quanto con l’educazione e l’istruzione delle giovani e giovanissime generazioni.

Maurizio Montanari

Psicoanalista. Responsabile del centro di psicoanalisi applicata LiberaParola di Modena (www.liberaparola.eu). Membro Eurofederazione di psicoanalisi