Che fare di Liberi e Uguali. Prime riflessioni su una sconfitta

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Varie sono le analisi del voto che sono apparse in questa prima settimana dopo le elezioni. Stefano Fassina sull’Huffington post (9 marzo), Massimo D’Alema (Corriere della sera, 10 marzo), Guglielmo Epifani (Repubblica, 10 marzo), Marco Revelli (Manifesto, 10 marzo) e molte altre su Facebook (cito Lucrezia Ricchiuti e Fausto Anderlini per tutti) e ancora molti altri. Non voglio fare a torto a nessuno, ma mi soffermo sulle prime tre.
In estrema sintesi, Fassina riprende una distinzione fatta (sul Messaggero di qualche anno fa) da Romano Prodi, in cui si individuano tre ambiti dell’economia italiana. Le imprese di beni e servizi rivolti all’innovazione spinta e all’export; l’economia che conta sull’assistenza dello Stato; e il sommerso di cui parla sempre De Rita (il cosiddetto nero).
Fassina semplifica: quelli che lavorano per l’export e si sono giovati dell’integrazione europea (cioè della moneta unica e del mercato comune) e del libero commercio internazionale hanno votato PD, +Europa e Forza Italia. Sarebbe questo lo zoccolo duro del cosmopolitismo economico e culturale, che non capisce il bisogno di protezione e lo scambia con provincialismo, razzismo e populismo. Questi elettori sono concentrati nelle zone più belle e comode delle città.
Quelli che invece non beneficiano dai meccanismi dell’Europa unita e della globalizzazione e il cui lavoro e reddito conta sulla domanda interna e da meccanismi di tutela sociale hanno votato Lega Nord, Fratelli d’Italia e Movimento 5 stelle. Sarebbero i dipendenti, gli impiegati pubblici, i precari e i pensionati, che abitano in prevalenza nelle zone urbane periferiche e in quelle rurali.
LeU in tutto questo non ha toccato palla, perché ha scontato gli errori del PD del passato recente e non aveva un profilo programmatico sufficientemente distinto. I pochi voti che ha preso – paradossalmente – li ha presi dallo stesso bacino del PD.
A D’Alema il Corriere offre un formato più angusto, l’intervista-provocazione, ma il suo pensiero emerge ugualmente. Il PD ha abbandonato il riformismo e ha fatto solo vuota propaganda quando ha indicato la crescita conseguita negli ultimissimi anni (perché la crescita italiana è minore di quella degli altri Paesi europei e perché ha convissuto con le diseguaglianze anziché ridurle). Ma LeU non ha offerto tempestivamente un’alternativa. Too little, too late.
D’Alema rivendica (e meno male! n.d.r.) la scissione ma concorda con Fassina sulla carenza di una discontinuità programmatica adeguata con il centro-sinistra egemonizzato dal PD. Il Movimento 5 stelle ha invece incarnato l’antitesi del PD e ha impugnato le bandiere del reddito di cittadinanza e della lotta alle caste. D’Alema aggiunge un apprezzabile elemento di autocritica sulle candidature. Riconosce che qualche volto nuovo non avrebbe guastato.
Epifani non viene sfiorato da quest’ultimo dubbio ma con schiettezza ammette che aver votato a favore della legge Fornero nel 2012 è stato l’inizio della fine. Cambiare le regole pensionistiche in corsa (e aver creato la categoria degli esodati, quelli cioè che non hanno né lavoro né pensione) ha significato distruggere il ruolo storico della sinistra, cioè quello di garante del patto tra generazioni di una collettività che lavora.
La ricchezza di spunti di riflessione è dunque notevole. Mi sentirei di fare poche aggiunte e di trarre due conclusioni.
Le aggiunte, una sul Movimento 5 Stelle, una sulla Lega di Salvini e una sul PD.
Il Movimento 5 stelle avrà avuto certo gli elementi di forza che dicono Fassina e D’Alema però ci sono dei però.
Anzitutto, i 5 stelle hanno scelto una messaggistica semplificata e forte che nessun politico che sappia che cos’è lo Stato avrebbe potuto adottare. La sfacciataggine di reclamare il reddito di cittadinanza senza dire una parola sull’evasione fiscale per una sinistra degna di questo nome era impraticabile. Così come – temo – si rivelerà impraticabile darlo, il reddito di cittadinanza.
In secondo luogo, i 5 Stelle dove amministrano, perdono. A Roma e Torino dimezzano i voti rispetto al ballottaggio del 19 giugno 2016 (rispettivamente, da 770 mila voti a 350 mila e da 202 mila a 110 mila). Non va meglio a Livorno e a Bagheria.
Fassina dice che l’export ha votato PD e Forza Italia. Con un’ingombrante eccezione: il Veneto. Quella regione campa con il cosmopolitismo turistico e l’export e ha votato Lega.
Veniamo al PD. Quello che sta accadendo in questi giorni in quel partito rivela come non vi si faccia politica sui temi di merito (lavoro, fisco, pensioni, ambiente, cultura). Solo dinamiche di posizionamento.
Le conclusioni.
Non rompere le righe. Organizzarci come partito, con mezzi e persone adeguate. Definire sedi formali per la determinazione della linea politica. Consolidare il consenso (D’Alema giustamente dice troppo poco per dire di contare ma troppo per smobilitare).
Last but not least: che fare nei confronti del Movimento 5 Stelle? Fassina e D’Alema sostengono che bisogna vedere le carte. Sarà. Ammesso che un partito del 3 per cento cambi qualcosa nello scenario, non riesco a superare lo scetticismo; so che – nel caso – c’è una condizione imprescindibile. L’abolizione del Jobs Act.
Fassina correttamente sottolinea che i fattori di trasmissione dei benefici dell’internazionalizzazione dell’economia ai ceti bisognosi di protezione sono le forme contrattuali del lavoro e gli istituti del welfare. Ecco: allora bisogna riallacciare quel filo e rimettere la reintegra per il licenziamento illegittimo e tanti quattrini sugli ammortizzatori sociali.

Giovanni Bellini

Pittore