Centrosinistra: il punto non è farlo senza Renzi, ma farlo de-renzizzato

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I dati relativi ai ballottaggi del 25 giugno impongono all’area democratica una riflessione sulle prospettive conseguenti ad una sconfitta elettorale indicativa di un malessere forse più esteso di quanto i numeri lascino intendere. La capitolazione di due tradizionali roccaforti come Genova e La Spezia, la bandiera del Carroccio sul municipio di Sesto San Giovanni, la resurrezione (prevedibile e per certi versi inevitabile) del berlusconismo a trazione leghista rendono tutt’altro che incongrui i riferimenti ad una vera e propria Waterloo: alla Waterloo di un progetto politico paradossalmente incentrato sulla riproposizione delle ricette della destra più regressiva; alla Waterloo di un gruppo dirigente incapace di elaborare un pensiero autonomo dai tweet imposti dal Capo; alla Waterloo di un Segretario uscito clamorosamente battuto da tutte le competizioni elettorali in cui ha trascinato il Pd, sull’onda della hybris generata dal voto europeo.

Mentre Renzi si barrica nel bunker del Nazareno, vagheggiando un modello di autosufficienza indigeribile anche per i più accaniti sostenitori del partito a vocazione maggioritaria, altri settori della galassia progressista sembrano voler rilanciare le primarie di coalizione allo scopo di rendere “contendibile” la leadership dell’ex Sindaco di Firenze in vista delle prossime politiche, individuando così nel “centro-sinistra senza Renzi” la soluzione più immediata per superare la crisi di consensi in atto. Soluzione per certi versi logica, ma nella sostanza inidonea a ripristinare quella connessione sentimentale tra partiti e popolo del centro-sinistra, in fuga dalle urne malgrado i sempre più flebili richiami al “voto utile” e alla necessità di “arginare i populismi”. Soluzione non idonea, si diceva, perché Matteo Renzi rappresenta, a questo punto, solo lo zenit di un problema politico più ampio, e che coinvolge, in vario modo, l’intero tessuto connettivo di quel che resta della sinistra italiana.

Riavvolgendo il nastro della storia recente – dalla kermesse del Lingotto alla notte del 4 dicembre -, Renzi assume i connotati non del “marziano venuto dalla luna”, del descamisado che sfida consorterie e rendite di posizione, ma quelli del frontman della degenerazione di una cultura politica che – dalla degradazione dei partiti a comitati elettorali all’esaltazione dell’Uomo solo al comando (meglio se incanalabile nella retorica giovanilista del rinnovamento) – alcuni settori dell’area democratica avevano già iniziato a metabolizzare. Lo conferma la sconcertante freddezza con cui il tentativo del “governo di cambiamento” messo in atto da Pierluigi Bersani – ultimo alfiere di una sinistra popolare, e dunque antitetica rispetto agli stilemi della post-ideologia – venne affossato da un gruppo parlamentare dimostratosi, pochi mesi dopo, disponibile ad assecondare il progetto di manomissione della Carta Fondamentale cristallizzato nel ddl Renzi – Boschi; lo conferma la disponibilità con la quale gran parte della classe dirigente del centro-sinistra nelle varie realtà locali ha assecondato – o comunque non osteggiato, al netto di alcune coraggiose voci critiche – le dinamiche che hanno scandito il percorso dell’ex premier da Palazzo Vecchio a Palazzo Chigi.

Se tutto questo è vero, è ragionevole supporre che l’eventuale superamento della leadership di Matteo Renzi non determinerà l’automatica frantumazione di questa classe dirigente, la quale, ricollocandosi nell’ambito delle varie formazioni che sorgeranno dalle macerie della Svolta buona, potrebbe riversare in queste nuove realtà le stesse contraddizioni, gli stessi limiti e le stesse logiche da cui dipende quella fuga degli elettori dalle urne a cui si è poc’anzi fatto cenno.

E allora, come se ne esce? Non se ne esce, senza una strategia che miri non a un semplice rassemblement dell’esistente, magari emendato dalle incrostazioni egocratiche e dalla retorica efficientista propria della narrazione leopoldina, ma a una più radicale de-renzizzazione del centro-sinistra, presupposto indispensabile per restituire ai partiti la loro tradizionale funzione di strumenti di partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese, capaci di intercettare quello straordinario patrimonio di energie morali e intellettuali  e di autentica passione civile sprigionato dalla mobilitazione a difesa della Carta Fondamentale. Nella piena consapevolezza del fatto che la prospettiva di un centro-sinistra senza Renzi non basta ad arginare la fuga degli elettori dalle urne, e che la connessione sentimentale tra i partiti dell’area democratica e le tante anime che agitano il popolo della sinistra può rinsaldarsi solo dinanzi alla promessa di un centro-sinistra de-renzizzato.

Carlo Dore jr.

Quarantadue anni, cagliaritano, docente universitario. Da sempre a sinistra, senza mai cambiare verso.