1. PERCHÉ LA NOSTRA PROPOSTA DENTRO UN MONDO NUOVO
Il mondo in cui viviamo è sempre più insicuro e orientato a destra. Siamo davanti a un movimento su scala globale alimentato da una «nuova destra» di orientamento nazionalista: non è più quella tradizionale, di tipo neo-liberista, che declinava le libertà al plurale per garantire in modo più efficace la difesa dei monopoli e delle rendite di un’oligarchia, ma risponde, con capacità, a un’esigenza di protezione che attraversa fasce sempre più vaste della popolazione in Italia, in Europa e nel mondo.
Ciò che è peggio, perché terribilmente più efficace, è che questa novità si è affermata mediante un continuo processo di «invenzione della tradizione» che ha recuperato, sotto mentite spoglie, le parole d’ordine di sempre: la sacra difesa delle frontiere nazionali («America first», «prima gli italiani», «les français d’abord», «Brasil acima de tudo»), la lotta contro la società aperta, il disprezzo del multiculturalismo, il fastidio per le differenze sociali e di genere, e, persino, la rimessa in discussione delle basi costitutive della società democratica e liberale.
Bisogna, però, aprire gli occhi perché la sequenza di sconfitte dei socialisti, democratici e progressisti è davvero impressionante sotto ogni latitudine. Già prima, e ancora di più dopo la vittoria di Donald Trump alle elezioni statunitensi del 2016, è cambiata radicalmente la geografia politica del pianeta.
In Europa è stato prima travolto il Partito socialista francese, poi il Partito democratico in Italia e, infine, fortemente ridimensionati i socialdemocratici tedeschi, mentre si profila all’orizzonte l’uscita di scena di Angela Merkel, un passaggio che favorirà l’alleanza dei Popolari europei con la destra nazionalista. Le destre governano in Austria, Olanda, Polonia, Ungheria, Finlandia e in Italia si è formata un’originale alleanza tra una destra regressiva e un movimento populista di nuovo conio. Il referendum sulla «Brexit», voluto dai conservatori per rafforzare la propria posizione politica, con la vittoria del «Leave» ha sancito l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, avviando un lungo e complesso negoziato che è facile prevedere sarà foriero di nuove tensioni.
Negli ultimi anni si è formata nel Vecchio continente una vera e propria «internazionale populista e nazionalista» che unisce Viktor Orbán e la fondazione di Steve Bannon, Marie Le Pen e Horst Seehofer, capo della CSU bavarese, «Alternative für Deutschland», l’Olanda e la Slovacchia, la Polonia e la Svezia. Queste forze si propongono l’obiettivo di ottenere la maggioranza con una parte dei deputati eletti con il Ppe e, facendo asse con le destre radicali e neofasciste, vorrebbero riportare l’Europa agli anni Trenta del secolo scorso, riattualizzando una catena storica inevitabile che passa dal nazionalismo, al protezionismo commerciale e, purtroppo, è sempre finita con la guerra.
Sempre in Occidente, in America del Sud, si è registrato in Cile il ritorno al potere di una forza conservatrice, in Argentina di un soggetto politico di destra e in Brasile si è consumato il dramma di Luiz Inácio Lula: un simbolo della lotta dei lavoratori e della riscossa progressista del Paese e di quella parte del continente, è oggi ancora rinchiuso nel carcere di Curitiba, in spregio al diritto e alle più elementari garanzie democratiche. È vero che, alle ultime elezioni, il candidato del Partito dei lavoratori Fernando Haddad, in condizioni molto difficili, ha raccolto un lusinghiero 45 per cento dei consensi, ma la competizione è stata vinta dall’ultra reazionario Jair Bolsonaro, un nostalgico della dittatura militare.
Nel Medio Oriente il tentativo di trovare una soluzione all’annoso conflitto tra israeliani e palestinesi in base al principio «due popoli, due Stati», forse per la prima volta dopo svariati decenni, è incredibilmente cancellato dal dibattito internazionale. La scelta di Netanyahu e della destra israeliana di varare una legge fondamentale che trasforma lo Stato d’Israele in Stato ebraico è un ulteriore colpo al processo di pace. La comunità internazionale deve pretendere oggi invece il cessate il fuoco, avviare una nuova conferenza di pace, promuovere la fine dell’assedio di Gaza, favorire il riconoscimento in ogni sede multilaterale dello Stato di Palestina.
Nel Sud del pianeta l’intreccio tra odiose dittature, vecchi e nuovi fondamentalismi religiosi, condizioni economiche sempre più difficili e disastri ambientali ha reso quell’area una polveriera dal futuro incertissimo.
A Est, anche in conseguenza dell’insufficiente azione dell’Europa, la Russia di Vladimir Putin, con la sua forza, continua a muoversi in assoluta autonomia, al di fuori di qualsiasi logica di cooperazione internazionale. Sempre a Oriente, insieme con l’ulteriore involuzione democratica della Turchia di Erdogan, l’irresponsabile scelta di Trump di cancellare l’accordo con l’Iran ha reso drammaticamente più deboli le forze riformiste di quel Paese, fondamentale per qualsiasi politica che si ponga l’obiettivo di governare il conflitto tra sciiti e sunniti.
Ad aggravare il quadro internazionale sta contribuendo il risorgere di una crescente tensione tra la Serbia e il Kossovo, alle porte dell’Italia, nel cuore dell’Europa.
In questo quadro la Cina è ormai divenuta stabilmente una grande potenza politica ed economica con un chiaro disegno strategico che va ben oltre i suoi confini geografici. Anche nella più popolosa democrazia del mondo, l’India, è ormai al governo da qualche anno un partito nazionalista e conservatore.
L’impressione generale è che stia prendendo piede un’involuzione della democrazia in «democratura», con la definizione di nuovi sistemi politici che rispettano le regole formali della democrazia, ma sono ispirati, nei comportamenti concreti, a un sostanziale autoritarismo.
Le classi dirigenti della destra mondiale ritornano a usare la retorica della guerra e a incentivare una nuova corsa agli armamenti. Preoccupa la rottura dei trattati sulla deterrenza nucleare perché la bomba atomica, come nel secolo scorso, resta la principale minaccia per l’esistenza stessa del genere umano. Occorre una mobilitazione generale per la pace e per il disarmo.
Il fenomeno è accompagnato, e non potrebbe essere diversamente, da una crisi di autorevolezza degli organismi internazionali, a cominciare dall’Onu, e da una sempre più seria difficoltà di rappresentanza, a livello globale e nazionale, dei sindacati e dei partiti politici tradizionali, che scontano l’affermarsi, in ragione della rivoluzione tecnologica, delle nuove forme di disintermediazione. La crisi di autorevolezza degli intermediari, il grande avvenimento sociologico del nostro tempo, se ha riguardato l’istruzione, la sanità, il commercio, il turismo, il giornalismo, la fruizione della musica, del cinema e della televisione, è del tutto evidente che ha influenzato anche e soprattutto la politica.
Sarebbe miope e provinciale limitarsi a provare un sordo rancore nei confronti della realtà e leggere le questioni politiche italiane fuori da questo contesto internazionale senza riuscire a cogliere le trame di interconnessione esistenti tra le diverse vicende. Al contrario dobbiamo interrogarci sul perché, nel tempo in cui si sono moltiplicate le diseguaglianze e le ingiustizie sociali per milioni di uomini, il fronte progressista, democratico e di sinistra è in un angolo quasi ovunque nel mondo, o in seria difficoltà e privo di un’iniziativa politica convincente, incapace di rappresentare e difendere le forze sociali di riferimento e costruire con loro nuove alleanze.
Dopo l’esaurimento della cosiddetta «Terza via», che ha accompagnato, nel corso degli anni Novanta, un periodo espansivo del ciclo economico mondiale, la sinistra non è stata più in grado di mettere in campo un pensiero critico e un nuovo progetto di governo della globalizzazione, capace di reagire alla fase recessiva del fenomeno, iniziata con la crisi economico-finanziaria del 2007 e protrattasi fino a oggi.
La nostra ricerca e la nostra proposta politica vanno collocate dentro questo mondo nuovo, in cui è cambiato tutto. Perché è dentro questo mondo nuovo che si possono e si debbono trovare le ragioni di una nuova sinistra.
2. PERCHÉ UN NUOVO PARTITO «ROSSO-VERDE», AUTONOMO, MA NON AUTOSUFFICIENTE
Siamo in campo perché vogliamo dare il nostro contributo per ricostruire e cambiare la sinistra e realizzare un’alternativa plurale e credibile alle destre.
Vogliamo essere una forza di combattimento, partigiana e con uno spiccato carattere laburista, che sceglie con chiarezza di stare dalla parte del mondo del lavoro e degli esclusi per ridurre le diseguaglianze.
Questo nuovo partito, infatti, deve rimettere al centro della sua azione la dignità del lavoro, il buon funzionamento della sanità e della scuola pubblica, il valore della progressività fiscale, la «questione meridionale», una nuova sensibilità ambientalista e femminista.
Questo nuovo soggetto politico deve essere autonomo, ma non autosufficiente e pregiudizialmente contrapposto alle altre forze progressiste con cui deve rimanere aperto il confronto, nelle differenze, per promuovere, in discontinuità con il passato, una reale alternativa alle destre e al populismo. Questa è la nostra ambizione e la nostra funzione.
Di conseguenza, se pensiamo al presente e al futuro dell’Italia, siamo convinti che sia necessario rifiutare sia la deriva minoritaria e settaria della cosiddetta sinistra antagonista, sia il carattere centrista e neo-liberista assunto dal Partito democratico sotto la guida di Matteo Renzi.
Il Pd, che resta il più grande soggetto politico del centrosinistra, si appresta a vivere una fase congressuale. Auspichiamo sia l’occasione per riflettere in modo serio e aperto al confronto sulle ragioni che hanno portato la sinistra e il centrosinistra a subire alle ultime elezioni la più grande sconfitta della storia repubblicana. Rimane, però, il problema di ordine storico che il Partito democratico, fondato nell’ottobre 2007, proprio nell’anno dello scoppio della più grande crisi finanziaria del Dopoguerra, è nato dentro un quadro bipolare del sistema politico italiano e grazie alla mescolanza di forze liberali, cattolico-popolari, socialiste e socialdemocratiche che avevano cementato quel significativo percorso unitario dentro una fase espansiva del ciclo economico italiano e mondiale. Oggi quel contesto politico non esiste più e il sistema economico è profondamente cambiato a causa degli effetti decennali della crisi, due fattori che dovrebbero indurre quel partito a riconoscere l’esaurimento della propria missione storica e a ripensare radicalmente e con generosità la propria funzione.
Ovviamente, non si tratta di auto-assolversi collettivamente, con rituali autocritiche e rapidi riposizionamenti, all’insegna di un ridicolo «mal comune mezzo gaudio». Con un necessario atto di umiltà occorre constatare che il fallimentare risultato elettorale del 4 marzo 2018 ha riguardato l’intero fronte progressista e dunque ciascuno di noi, sia che provenga dalle file della sinistra riformista o radicale, di governo o antagonista, civica o ambientalista, laica o cattolica. Chi più chi meno, abbiamo perso tutti in modo bruciante e ora stiamo attraversando una difficile fase di riorganizzazione delle nostre forze ed energie.
La verità politica è che siamo stati respinti dalle periferie sociali, urbane, territoriali dell’Italia tanto che il voto al Partito democratico, a Liberi e Uguali e a Potere al Popolo, al di là delle ovvie differenze quantitative, ha permesso di riscontrare una comune e trasversale composizione sociologica che ha portato tali forze, naturalmente in modo proporzionale, ad attingere allo stesso bacino di voti: nel centro città più che nelle periferie urbane, nelle aree metropolitane più che in quelle rurali e nei centri minori, nella media borghesia più che negli strati popolari, tra i ceti maggiormente istruiti e scolarizzati più che tra quelli che lo sono meno.
Per noi è ineludibile ripartire da questa consapevolezza, assumendo tre presupposti fondamentali: anzitutto, è necessario produrre un progetto nuovo e plurale, di tipo costituente, che provi a interpretare la fase politica, culturale, civile e sociale dell’Italia di oggi per comprendere le speranze, interpretare gli interessi e rispondere ai bisogni attuali dei suoi cittadini. In secondo luogo, non bisogna chiudersi in un recinto autoreferenziale, di tipo organizzativo o dottrinario; occorre, invece, aprirsi e dialogare con gli altri compagni sconfitti di questa dura fase politica, anche se avversari o concorrenziali, di sinistra e di centrosinistra. Infine, bisogna individuare nuove personalità, vecchie o giovani anagraficamente poco importa, che diano, però, il segno visibile di una discontinuità con il passato.
In questo contesto le prossime elezioni amministrative, regionali e comunali, rappresentano un appuntamento rilevante per fermare l’avanzata delle destre in Italia. Vogliamo contribuire con le nostre proposte e con le nostre liste a costruire larghe coalizioni civiche con candidati e programmi di forte rinnovamento, capaci di bloccare l’avanzata delle destre. Le regioni e le nostre città rappresentano un terreno fondamentale per ricostruire un rapporto vitale con una parte importante del nostro popolo. Intendiamo farlo ripartendo dal territorio, dai problemi reali dei cittadini.
3. PERCHÉ SERVE UNA FORZA ECOSOCIALISTA PER RIPENSARE IL CAPITALISMO E LA GLOBALIZZAZIONE
La nostra scelta è chiara e netta: vogliamo fondare un nuovo partito socialista e ambientalista, una forza rosso-verde della sinistra italiana.
Le contraddizioni, le crisi e le gravi ingiustizie del mondo in cui viviamo ripropongono con attualità gli ideali e l’orizzonte culturale del socialismo democratico. Altro che fine delle differenze tra destra e sinistra! Fare i conti con un mondo radicalmente cambiato non può significare per la sinistra mettere in soffitta gli ideali e i valori che ne giustificano l’esistenza e l’utilità sociale e politica.
Soltanto i cantori acritici del capitalismo, soltanto quanti hanno da difendere posizioni monopolistiche, rendite e patrimoni giganteschi possono far finta di non vedere che, nella crisi economico-finanziaria del 2007, è crollato il castello liberista, travolto dallo scoppio della bolla speculativa dei mutui che ha spazzato via la teoria del funzionamento automatico dei mercati.
Dopo la caduta del muro di Berlino non c’è stata «la fine della storia», ma si sono moltiplicati sino a esplodere i limiti e le contraddizioni dell’attuale modello di sviluppo. Oramai appare evidente, anche a studiosi di diverso orientamento, che il capitalismo, nelle sue forme di organizzazioni attuali di tipo turbo-liberista, non è in grado di garantire uno sviluppo sicuro, stabile e duraturo.
«L’alta marea» non ha sollevato tutte le barche in uguale misura, ma ha generato diseguaglianze così grandi da rappresentare un freno alla crescita di beni e servizi per difetto di domanda.
È insostenibile, non soltanto dal punto di vita etico, ma anche da quello economico, un sistema dove otto super ricchi hanno un patrimonio pari a quello di oltre tre miliardi di essere umani, mentre una persona su dieci sopravvive con meno di due dollari al giorno. Negli ultimi trent’anni anni la crescita dei salari del 50 per cento della popolazione mondiale è stata pari a zero, mentre quella dell’1 per cento è aumentata del 300 per cento.
Le diseguaglianze sono diventate così grandi da rappresentare uno dei fattori principali della crisi della democrazia.
Il mercato, da solo, non si è dimostrato in grado di garantire un compromesso equilibrato tra capitale, lavoro e ambiente. In un mondo dove si spreca circa un terzo del cibo prodotto, ogni ora muoiono di fame ottomila bambini al di sotto dei cinque anni.
Le grandi ricchezze accumulate, da un segmento sempre più piccolo della società non si sono tradotte in maggiori investimenti privati. Al contrario hanno generato un crescente peso della finanza nell’economia sino a determinare il paradosso che il capitalismo, nato per accrescere e moltiplicare le forze produttive, è divenuto dipendente e vittima della stessa finanza e della speculazioni fondiaria con la conseguenza che il capitale cresce più dell’economia reale.
Per noi, nel mondo attuale, essere socialisti significa essere radicalmente ambientalisti. In effetti, i limiti e le contraddizioni dell’attuale modello di sviluppo sono evidenziati da una crescente scissione tra ambiente, attività produttive, organizzazione delle città e gli attuali modelli di consumo.
In questi anni è crollata la «grande illusione» che lo strapotere dei mercati, in una globalizzazione senza governance, potesse «piegare la natura» alla logica del massimo profitto.
I risultati di questa miope logica di dominio sono sotto gli occhi di tutti con gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici. Ad esempio, la scelta del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di rompere l’accordo di Parigi è una grave minaccia per l’umanità.
L’equilibrio del nostro sistema è stato travolto da consumi che utilizzano più risorse di quanto la natura riesca a rigenerare, dallo spreco di materie prime non rinnovabili in via di esaurimento, dal rilascio nell’ambiente di rifiuti e sostanze tossiche.
È una colossale sciocchezza e una pericolosa miopia, sostenere che questioni di tale rilevanza possano essere affrontate e risolte in un’angusta logica nazionalista. La qualità ambientale è una grande questione transnazionale ed è da decenni la principale causa di migrazione nel mondo. Non è con i muri, con misure disumane che si governa il complesso fenomeno delle migrazioni ma contrastando i cambiamenti climatici che generano siccità e inondazioni sempre più frequenti.
La sostenibilità ambientale è un pilastro fondamentale del nostro orizzonte politico culturale, la via maestra per creare nuova e buona occupazione.
Vogliamo contribuire ad affermare una diversa gerarchia di valori che assuma la terra, l’acqua, l’aria, come beni comuni pubblici fondamentali, da non consumare e sprecare, consapevoli che le risorse della terra non sono un bene illimitato.
Per farlo scegliamo con coraggio e determinazione la strada dell’economia circolare che si fonda sul principio di garantire più cicli di vita alle materie prime.
Quest’orizzonte integra e supera il concetto di riconversione ecologica dell’economia, contribuendo finalmente a liberare la nostra cultura politica da un vecchio vizio di economicismo.
Non si cambiano i modelli di produzione, non si realizza uno sviluppo sostenibile, senza praticare una rivoluzione a trecentosessanta gradi, su più livelli, dell’organizzazione della società in cui viviamo.
È indispensabile, infatti, intervenire all’origine dei cicli produttivi cambiando la filosofia della progettazione dei prodotti, attualmente basata – come ha scritto papa Francesco nell’enciclica Laudato si’– sulla «cultura dello scarto», sull’usa e getta, sullo spreco di materie prime.
Contestualmente occorre rendere più conveniente investire nell’economia verde utilizzando la leva fiscale e il sistema degli appalti pubblici per promuovere e sostenere prodotti sani, sicuri, duraturi, riparabili e riciclabili.
Scegliere questa coraggiosa rivoluzione significa liberarsi dalla dipendenza dal carbon fossile, abolire i sussidi pubblici a tale settore e impegnare queste ingenti risorse economiche per incentivare processi di riconversione industriale e sostenere, per tali fini, lo sviluppo della ricerca di base e applicata.
Vogliamo uno sviluppo della scienza al servizio del bene comune, autonoma e libera dalle pressioni delle grandi lobby e multinazionali che, come nel caso della Monsanto, dei pesticidi e dello scandalo delle emissioni delle auto diesel, ha utilizzato ricerca e innovazione per coprire frodi inaccettabili a danno della nostra salute e della sicurezza alimentare.
Coerentemente con questa impostazione è indispensabile scegliere la strada della rigenerazione urbana per ripensare il rapporto spazio-tempo e la qualità dei nostri territori assumendo la sostenibilità ambientale come idea di base della riorganizzazione delle nostre città.
A valle dei cicli produttivi è determinante scegliere l’opzione «rifiuti zero» per recuperare tutte le materie prime contenute nei prodotti e garantire a esse più cicli di vita.
Solo un miope liberismo, accecato dall’ossessione dei facili guadagni nel breve termine, può far finta di non capire che «disaccoppiare» la crescita dal consumo irrazionale di materie prime rappresenta una scelta fondamentale per ridurre la nostra dipendenza dalle importazioni, diminuire i consumi di energia, aumentare la nostra competitività.
Il nostro eco-socialismo, la rivoluzione ambientalista che vogliamo sostenere è un orizzonte culturale, un’utopia necessaria e realizzabile. Non è un elenco di privazioni che vogliamo infliggere ai cittadini, ma una grande e moderna idea di sviluppo e benessere per dare più opportunità e libertà alle donne ed agli uomini del pianeta.
È parte fondamentale del nostro impegno per ripensare il capitalismo, per vivere meglio, più felici e più sani. È il futuro.
Inoltre, pensiamo sia necessario proporre una nuova lettura critica della globalizzazione dopo quella, troppo ottimista, offerta anche dalla sinistra italiana in una fase espansiva del ciclo economico iniziata negli anni Novanta del secolo scorso.
Questa visione ci ha portato a non fare i conti con tutte le conseguenze regressive che entravano nelle case e nelle vite delle persone; ancora la precarietà del lavoro, il rafforzarsi delle ingiustizie, l’aumento delle diseguaglianze, l’impoverimento dei ceti medi e di quelli più deboli.
Anche le rivoluzioni tecnologiche che si sono succedute negli ultimi decenni non hanno superato il conflitto capitale-lavoro. La globalizzazione, al contrario, ampliando e modificando la competizione internazionale ha accentuato la contraddizione tra il carattere sociale del lavoro e la dimensione privata dei profitti. Sono aumentati i ritmi di lavoro, in condizioni d’insicurezza, sono cresciuti i lavori precari sottopagati, sono diminuiti i diritti e le prestazioni sociali, sono sorte nuove forme di alienazione.
La stessa rivoluzione informatica ha costituito un pezzo fondamentale della globalizzazione. È stato sicuramente uno strumento di libertà e di emancipazione. Eppure, oggi, si pongono attorno a essa quesiti enormi che concernono la proprietà, la gestione e l’utilizzo dei «big data» da parte di pochi centri di potere economico e finanziario fuori da ogni controllo democratico.
L’idea dominante, progressivamente corrosa dalla lunga e insidiosa crisi finanziaria dal 2007 in poi, è stata quella di provare a temperare una visione liberale in politica e neo-liberista in economia con valori solidaristici di matrice socialista e cristiana. Tale prospettiva oggi si mostra del tutto insufficiente perché le opportunità sono diminuite e la forbice delle disuguaglianze è drammaticamente aumentata attraverso un impoverimento non soltanto degli strati più disagiati della società, bensì anche del ceto medio.
È urgente ripensare l’analisi della crisi del capitalismo che non si mostra in grado di garantire uno sviluppo stabile, equilibrato e duraturo perché passa, sempre più velocemente, da una crisi di sistema all’altra.
Serve un rinnovato ruolo dello «Stato imprenditore» giacché il mercato, da solo, non si mostra più in grado di garantire sviluppo, benessere e sostenibilità ambientale e una forte azione ridistributiva.
Negli ultimi decenni l’«ordoliberismo» ha prodotto effetti distorsivi, a cominciare dalla sconnessione tra l’economia reale e quella finanziaria, con conseguenze dannose sulla qualità della vita reale delle persone, aumentando il tasso di infelicità personale e collettiva.
Il fatto che non esistano alternative oggi credibili al libero mercato, non fa che aumentare le responsabilità del capitalismo, che ha il dovere di essere popolare e inclusivo altrimenti gli affanni in cui versano oggi i sistemi democratici rischiano di trasformarsi in una crisi di sistema conclamata, come già avvenuto altre volte nella storia.
Con l’accelerazione avvenuta all’indomani della fine della Guerra fredda l’economia e la finanza hanno conquistato una preminenza tale da prendere in ostaggio l’esercizio stesso della democrazia, determinando il collasso del vecchio compromesso socialdemocratico tra Stato e mercato. In questo modo le merci e il consumo si sono trasformati da strumento in fine dell’esistenza, diventando le perverse fonti riassuntive dell’identità e di un’esistenza sempre più atomizzata e disgregata: si compete per se stessi e si consuma in solitudine.
L’economia globalizzata di oggi ha modificato le caratteristiche del conflitto tra capitale e lavoro che ha assunto forme più radicali e insidiose: forse per la prima volta nella storia, infatti, la produttività è aumentata riducendo contemporaneamente la fatica degli uomini, senza, però, che il surplus ricavato sia stato reinvestito per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori. La tecnologia oggi consente di monitorare in tempo reale i luoghi dove la forza lavoro costa meno nel mondo e ciò ha favorito la realizzazione di imponenti e continui processi di delocalizzazione, a detrimento di quei luoghi produttivi dove gli operai, dopo un oltre un secolo di lotte, erano riusciti a conquistare diritti e condizioni di vita più favorevoli. Si è venuto, dunque, a creare un paradosso: i costi della produzione si sono abbassati, ma la forza lavoro è stata divisa tra vecchi lavoratori «aggirati» dai nuovi processi produttivi e nuova manodopera non ancora sufficientemente organizzata. Ciò ha ingenerato un campo di tensioni che sta assumendo sempre di più l’aspetto di una classica guerra tra poveri, caratterizzata da rabbia per il presente e inquietudine per il futuro, in cui prospera la nuova destra che soffia di continuo sul fuoco di quelle paure e frustrazioni, indicando, come sempre, nei più deboli i nuovi capri espiatori da sacrificare.
In tale contesto economico-produttivo, la crescente inadeguatezza delle istituzioni rappresentative nazionali e sovranazionali (Onu e Ue) e la percezione dell’inutilità della politica hanno prodotto una lacerazione del principio della delega (rispetto ai poteri democratici così come alle competenze), destinata ad allargarsi a dismisura con l’inizio dell’ultima crisi economica internazionale.
Al fallimento della capacità delle élite di interpretare questo passaggio di fase ha corrisposto un indebolimento della sovranità degli Stati, assolutamente disarmati di fronte agli tsunami dei mercati e alle scosse telluriche della finanza. Proprio per rispondere a questo rovescio è necessario che la sinistra si batta per rifondare e rilanciare il progetto europeo.
4. PERCHÉ E COME RIFONDARE L’EUROPA
La risposta dei nazionalisti alla «questione europea» è di corto respiro e costituisce una colossale trappola in quanto, in realtà, si trasforma in un danno grave per i Paesi più deboli. Perché qualsiasi Stato europeo, anche il più forte, svolgerebbe il ruolo di comparsa nel nuovo mondo dominato dalle grandi potenze e dai nuovi Paesi emergenti; perché renderebbe ancora più deboli gli Stati con un forte debito pubblico; perché indebolirebbe drammaticamente la forza dei singoli Paesi nel commercio e nella competizione internazionale; perché aumenterebbero i costi di approvvigionamento delle materie prime; perché sarebbe duramente colpito il sistema del credito.
Tuttavia, chi ama l’Europa deve guardare in faccia le difficoltà, i limiti e le contraddizioni dell’attuale Unione europea. Infatti, gli uomini e le donne che votano i partiti cosiddetti populisti non sono marziani scesi sul pianeta terra. Sono persone colpite duramente dalla crisi, cui il progetto europeo non è stato più in grado di offrire risposte adeguate e convincenti.
Anzitutto, il progetto europeo vive una crisi democratica di legittimazione, con poteri troppo ridotti del Parlamento rispetto a quelli assegnati agli esecutivi.
In secondo luogo, attraversa una crisi politica perché una moneta unica per funzionare, sia pure in una fase di federazione che ancora non ha raggiunto l’obiettivo di uno Stato comune, dovrebbe affrontare il tema di come attivare quella solidarietà fra i Paesi in situazioni di difficoltà, cui generalmente si fa fronte mediante il controllo sulla moneta.
Infine, sconta una crisi di funzionamento giacché il metodo intergovernativo ha portato a una vera e propria paralisi istituzionale che si è attestata sulla difesa di politiche economiche miopi, fondate sul nesso tra «Fiscal compact» e austerità.
In questo nuovo contesto, non è più sufficiente ricordare i grandi meriti storici dell’Unione europea – su tutti quello di avere garantito settant’anni di pace, di prosperità e di democrazia a uno spazio geopolitico per secoli dilaniato da guerre – per arginare questa rabbia sociale montante.
Anzi, per risalire la china serve anzitutto concretezza: bisogna ricordare che l’Europa è dove un malato può essere curato anche se non ha la carta di credito; l’Europa è dove un bambino fino a 16 anni è obbligato dai poteri pubblici ad andare a scuola per continuare a istruirsi; l’Europa è dove un profugo che fugge dalle guerre e dalle persecuzioni viene accolto; l’Europa è dove puoi osservare la tua religione liberamente e in modo pubblico; l’Europa è dove il lavoro deve essere retribuito in modo equo e svolgersi dentro una cornice di diritti che ne garantiscano la dignità; l’Europa è dove un migrante che sta affogando in mare è salvato; l’Europa è dove hai il diritto di amare chi, quando e come vuoi; l’Europa è dove puoi decidere tu quando e come morire; l’Europa è dove non c’è la condanna a morte ed è riconosciuto il valore della rieducazione della pena; l’Europa è dove non ci sono più guerre; l’Europa è dove la disobbedienza civile è un diritto come quello alla resistenza; l’Europa è dove la sicurezza e la libertà sono diritti imprescrittibili e naturali dell’uomo; l’Europa è dove puoi pensare e scrivere quello che ritieni giusto senza essere perciò perseguitato; l’Europa è dove puoi muoverti senza documenti liberamente attraverso i confini; l’Europa è dove la giustizia è uguale per tutti e non soltanto per il più ricco o il più forte; l’Europa è dove non esiste la schiavitù e la piaga del lavoro minorile.
Tutto questo è ciò che, concretamente, è diventata l’Europa dal 1789 in poi grazie a conflitti immani, ritardi, ritorni indietro, sorprendenti avanzate e accelerazioni.
Oggi tale patrimonio di civiltà, se ci pensiamo bene, è sotto attacco, non da parte di un nemico esterno, come vogliono farci credere gli imprenditori della rabbia e della paura, ma soprattutto da parte di forze che sono all’interno dell’Europa, di cui la democrazia, come è giusto che sia, ha garantito l’esistenza e dato spazio e rappresentanza.
L’unica strada politica possibile non è quella di negare questi sentimenti di rabbia, paura e sfiducia verso la politica, ampiamente diffusi soprattutto negli strati popolari, né ridurli a un problema di percezione da consegnare alle raffinate analisi degli studi demoscopici: no, si tratta di prendere di petto quei sentimenti, di riconoscerli e affrontarli, senza recedere di un millimetro rispetto ai valori e ai principi della storia d’Europa che abbiamo enunciato.
Siamo fermi in mezzo al guado: anche per questo motivo dobbiamo trasformare le prossime elezioni europee in un’ampia sfida per riappassionare milioni di cittadini italiani ed europei a un’idea di Europa alternativa a quella del rigore, delle disuguaglianze, della perdita di valore del lavoro, della disoccupazione giovanile.
5. PERCHÉ BISOGNA RICERCARE UN’ALLEANZA TRA IL SOCIALISMO EUROPEO E I MOVIMENTI PROGRESSISTI MONDIALI
Le attuali famiglie politiche europee e internazionali non sono più sufficienti.
Il nostro orizzonte, a livello nazionale ed europeo, sul piano culturale, rimane quello socialista, ma è oggi più che mai indispensabile la ricerca di un’alleanza politica più vasta con i movimenti democratici e progressisti presenti nel mondo. Il Pse ha gravi responsabilità: è stato subalterno al pensiero unico neoliberista e quindi debole nella sua battaglia politica contro l’austerità, condizionato dall’accordo con il Ppe.
Purtroppo oggi il Pse è una debole confederazione di forze anche molto differenti, con pochi poteri reali e scarsa iniziativa politica, che va radicalmente ripensata. Serve un grande e vero partito socialista transnazionale che lavori per un accordo stabile con i Verdi e le altre formazioni della sinistra.
Il Pse da solo non basta più per contrastare l’asse politico che nel frattempo si sta costruendo tra una parte del Partito popolare europeo e la nuova destra nazionalista.
Per salvare il progetto europeo è assolutamente indispensabile sottoporre a un’analisi critica, anche radicale, le politiche economiche assunte dall’Europa, stando attenti, però, a non utilizzare parole d’ordine che, anche da sinistra, evocano la supremazia degli Stati nazionali rispetto all’Europa e che rischiano di venire assimilate a quelle, oggi egemoniche, della destra e a esserne, dati i rapporti di forza, inevitabilmente subalterne.
6. PERCHÉ GUARDIAMO ALLE ESPERIENZE DEI SOCIALISTI BRITANNICI, PORTOGHESI E SPAGNOLI CON INTERESSE E SPERANZA
Se è doveroso essere critici con la recente stagione del socialismo europeo, allo stesso tempo non si può non constatare che, all’interno di quella famiglia, negli ultimi anni, si sono affermate alcune personalità tra loro diverse per età, provenienza geografica e percorso politico come lo spagnolo Pedro Sánchez, il portoghese António Costa e il britannico Jeremy Corbyn.
Essi si stanno battendo con successo, nei loro rispettivi Paesi, per un processo di rinnovamento rilevante del socialismo europeo che parte da una critica radicale alla sbornia liberista dell’ultimo decennio e dalla necessità di riformare con coraggio l’attuale assetto politico e istituzionale dell’Unione europea.
Questi tre leader hanno conquistato la maggioranza nei loro partiti, dopo aspri scontri interni, e sono accomunati da almeno due aspetti: hanno tutti rifiutato le larghe intese, ossia un accordo consociativo con il fronte conservatore per costruire una sacra alleanza nel nome di un europeismo tradizionale contro l’onda montante del populismo; hanno avanzato proposte politiche coraggiose per recuperare la rappresentanza del mondo del lavoro e dei ceti popolari più colpiti dalla crisi economico-finanziaria.
L’azione del nuovo partito della sinistra italiana che vorremmo nascesse al termine di questo processo costituente si deve dunque collocare nel solco tracciato da queste originali esperienze.
Sarebbe un errore esiziale pensare di potere battere le forme assunte dal nazionalismo e dal populismo su scala europea aggregando in un indistinto «fronte repubblicano», trasversale dai conservatori ai socialisti, tutti quelli disposti a combattere nel nome di un europeismo astratto e tecnocratico. Quanti, cioè, vorrebbero schierarsi con le forze sedicenti «sane e competenti» contro i «nuovi barbari» alle porte, consegnando così a questi ultimi, in modo irresponsabile, il ruolo d’interpreti autorizzati della ribellione dei popoli e degli esclusi contro le élites nazionali ed europee.
Se gli Stati-nazione hanno incubato ed espresso la sovranità dei moderni, dopo la Grande rivoluzione del 1789, il XXI secolo dovrà dare fondamento a una comunità di destino: quella dei popoli europei e degli Stati Uniti d’Europa. In questo senso è necessario articolare un nuovo internazionalismo progressista, in grado di contrastare rinascenti tentazioni nazionaliste fondate su presunti e pericolosi primati etnico-razziali.
La condizione costitutiva della specie umana è il cammino; abbiamo piedi, non radici. Non sarà possibile continuare a lungo con la contraddizione che tutti i giorni abbiamo sotto gli occhi e fingiamo di non vedere: vogliamo che le merci si muovano e ci riforniscano sempre più velocemente, all’insegna di una disintermediazione continua, ma allo stesso tempo pretendiamo che gli esseri umani rimangono fermi, bloccati da barriere sempre più alte e ostili, uomini, donne e bambini che spesso trascorrono la loro vita a produrre quelle merci nel Sud del mondo, con salari da fame, se non in vere e proprie condizioni servili: la scarpa sportiva griffata di oggi, è il correlativo del thè, dello zucchero e del caffè del commercio globalizzato della prima età moderna.
In particolare, la storia insegna che l’Europa è stata da sempre il crocevia di culture e destini, frutto della mescolanza e del dialogo. Riscoprirne questa vocazione è fondamentale per salvare un Paese come l’Italia, frontiera avanzata di questo frammento dell’Asia spostato verso occidente, senza frontiere geografiche certe che possano delimitarlo. Così come l’Europa, anche l’Italia è un’idea dell’incontro più che un luogo statico: il Mediterraneo è stato da sempre un ponte verso il mondo e sarebbe ingenuo e irrealistico pensare di poterci nascondere dietro un muro e chilometri di filo spinato.
7. PERCHÉ E COME CAMBIARE LE ISTITUZIONI EUROPEE
Lo squilibrio di potere tra il cosmopolitismo dell’economia e il nazionalismo della politica non verrà equilibrato e governato con istituzioni europee deboli, paralizzate dagli egoismi degli Stati nazionali.
In un mondo in rapida e tumultuosa trasformazione, in cui il vecchio è finito ma il nuovo non si è affermato ancora, dove tornano le grandi superpotenze e si affermano nuovi protagonisti, l’Europa appare molto spesso imballata: ferma, lenta, incapace di svolgere il ruolo di grande potenza della scena politica ed economica globale che le potrebbe competere.
La crisi del progetto europeo è anzitutto una crisi politica, perché è palesemente naufragata la gestione intergovernativa dell’Unione. La terribile crisi economico-finanziaria iniziata nel 2007 ha travolto il duopolio imperfetto fondato sulla moneta unica e su un potere politico parcellizzato negli Stati nazionali con forti diritti di veto.
Per questa ragione è urgente riformare l’architettura istituzionale europea. La via maestra è quella di ristabilire una connessione democratica tra istituzioni e sovranità popolare attribuendo pienamente al Parlamento europeo i poteri legislativi e di controllo.
È questa la strada principale per spostare il baricentro della democrazia dagli Stati nazionali al Parlamento eletto da tutti i cittadini europei. Cambierebbe tutto rapidamente. Già oggi, con le regole attuali, se fossero diventate leggi le decisioni adottate dal Parlamento di Bruxelles discuteremmo di un’altra Europa nettamente più forte e più giusta.
Contestualmente è necessario ampliare le competenze della Commissione europea che deve sempre di più divenire il governo, il potere esecutivo europeo.
Utilizzando le opportunità previste dal trattato di Lisbona riteniamo utile sostenere accordi di «cooperazione rafforzata» tra gli Stati che intendano, da subito, spingere più avanti i loro livelli di integrazione. Non si tratta di teorizzare un’Europa con «una doppia velocità», ma più semplicemente di sostenere l’urgente necessità di utilizzare tutti gli strumenti possibili per spingere verso una maggiore integrazione.
L’Unione europea non riconquisterà ruolo e prestigio, non tornerà a essere la più bella idea del Novecento, se insieme con le necessarie riforme istituzionali non sceglierà di cambiare radicalmente la sua politica economica.
Per questo per noi è fondamentale il nesso tra le riforme istituzionali e la riforma dei trattati. Infatti, non potrà reggere a lungo una moneta unica con debiti pubblici gestiti con tassi d’interesse differenti (lo spread).
Così anche non sono più accettabili i vincoli derivanti dal «Fiscal compact», con una disciplina tanto dettagliata e complessa quanto poco trasparente e opaca nella gestione.
Non si aumentano i consumi interni e non si compete nel mercato internazionale se non si scorporano gli investimenti dal calcolo del deficit.
Non si fa molta strada se il sistema bancario resta sostanzialmente ineguale e nazionale favorendo i Paesi più forti , quelli dove «corrono» i risparmi. Non c’è integrazione reale se i sistemi fiscali, le regole del mercato del lavoro, dentro l’Europa, restano profondamente differenti.
Non si mette benzina nel motore dello sviluppo se la Banca centrale europea ha una statuto che le affida esclusivamente il compito di controllare l’inflazione e non quello di promuovere lo sviluppo e l’occupazione.
Unione bancaria, riforma dei bilanci, nuove regole comuni su fisco e lavoro, un forte pilastro sociale con il varo di un’assicurazione europea contro la disoccupazione, sono i capisaldi delle riforme per le quali vogliamo batterci per rifondare l’Europa e avviare una coraggiosa transizione verso gli Stati Uniti d’Europa.
8. PERCHÉ E COME OCCORRE RIFORMARE L’EURO
L’introduzione della moneta unica europea è stata realizzata male e gestita peggio. È stata realizzata male poiché, tra i parametri di convergenza, non si è voluto tenere conto della realtà di debiti pubblici profondamente differenti, di sistemi bancari non paragonabili, di sistemi fiscali e di un costo del lavoro non omogenei a livello continentale, ma soprattutto della grande diversità nei gradi di sviluppo dei Paesi, e della diversa forza democratica delle loro istituzioni.
Ed è stata gestita peggio poiché il «Fiscal compact» e le politiche di austerità hanno ingessato e bloccato i bilanci, accentuando le differenze tra i Paesi più forti e quelli più deboli, ossia realizzando un movimento inverso da quello che sarebbe dovuto avvenire.
Il problema non è l’Euro in sé, ma la mancata successiva integrazione che i nazionalisti hanno fortemente rallentato.
Il sistema così non regge e rischia di implodere con effetti deleteri soprattutto per le fasce più deboli della popolazione. Si tratta di un problema che meriterebbe una maggiore consapevolezza delle classi dirigenti europee e una risposta riformatrice strutturale, che non si riduca alla prospettiva, da noi giudicata un inaccettabile azzardo, di rinunciare all’Euro per tornare alla Lira.
Uscire dall’Euro, infatti, anche in conseguenza degli attuali rapporti di forza, comporterebbe la svalutazione del cambio, l’aumento dei tassi di interesse, il crollo dei valori finanziari, una crescita dell’inflazione e l’erosione dei risparmi, con una perdita enorme di ricchezza per le famiglie e l’avvio di una spirale recessiva senza ritorno.
La riforma dell’Euro prelude a una riforma strutturale della Bce per attribuirle in via ordinaria e non solo, come si è tardivamente e parzialmente fatto negli anni recenti della grande crisi, la funzione di prestatore di ultima istanza.
Prima di forzare isolatamente le regole o di mendicare eccezioni sarebbe necessario cercare una rete di alleanze possibili nei partiti della sinistra presenti in Europa, ponendo all’ordine del giorno una ridiscussione profonda dell’impianto del Patto di stabilità e verificando sul piano politico le forze in campo.
9. PERCHÉ E COME RIVEDERE IL RUOLO DELLO STATO E DEL LAVORO
Negli ultimi decenni, la distribuzione del reddito è fortemente cambiata a favore di profitti, rendite e royalties e ai danni del reddito da lavoro. Anche la concentrazione dei patrimoni è cresciuta, e sempre più forte è la trasmissione intergenerazionale delle diseguaglianze. Combattere le diseguaglianze deve essere l’obiettivo prioritario dell’azione politica del nuovo partito. Questo richiede di intervenire sia dove queste si formano, e quindi sui processi di mercato, sia rafforzando gli strumenti di ridistribuzione: fisco e welfare.
La concentrazione di redditi e ricchezza è favorita dallo sfruttamento di rendite di monopolio. Bisogna rompere queste rendite, evitare che le imprese si aspettino di ottenere il profitto dalla compressione delle retribuzioni, dalla debolezza dell’euro, da spese pubbliche e agevolazioni fiscali indifferenziate. Occorre, invece, attivare politiche industriali mirate, con chiare priorità settoriali e territoriali, aiutate da investimenti in quelle infrastrutture – messa in sicurezza del territorio, ricerca e sviluppo, scuola, sanità, trasporti, Ict, utilities – sempre più necessarie per la crescita e la sostenibilità ambientale.
È venuto, dunque, il momento di ripensare a un ruolo attivo dello «Stato imprenditore» come soggetto fondamentale regolatore del rapporto tra uomo, società e ambiente. Un terreno, questo, di confronto naturale tra la sinistra e la cultura cattolica democratica e popolare alla quale guardiamo con grande attenzione. È necessario aprire la stagione del Green New Deal, che ha un doppio dividendo. Da un lato lavoro buono e stabile, dall’altro rilancio di un territorio capace di riattivare turismo, cultura, agricoltura di qualità, benessere diffuso.
Bisogna anche riformare radicalmente il sistema finanziario, rafforzando il ruolo del credito al sistema produttivo e alle famiglie, e sottoponendo a controlli e a limitazioni le transazioni finanziarie finalizzate all’estrazione di rendite, che sono fonte di possibili instabilità e crisi.
Le politiche macroeconomiche devono essere orientate alla crescita dell’occupazione e devono essere accompagnate da politiche di regolazione del mercato del lavoro per ridare al lavoro quei diritti che gli sono stati tolti. Ciò significa agire su più fronti, eliminando la piena discrezionalità che è stata lasciata al datore di lavoro: sui licenziamenti, sulla durata del rapporto di lavoro, sulla distribuzione dell’orario di lavoro (con contratti a domanda che, richiedono al lavoratore la piena disponibilità del suo tempo, ma lo pagano soltanto per le poche ore in cui si decide effettivamente di attivarlo. Nello specifico, occorre tendere a ridurre le differenze per i minimi salariali europei, in primo luogo nella zona euro, impegnandosi per ottenere una direttiva europea, aprendo un confronto con le parti sociali. Più in particolare, in Italia, per contrastare il dumping salariale, occorre una legge sul salario minimo orario, a partire dall’estensione dei contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni sindacali, la cui rappresentatività va certificata con procedure fissate in norma di legge). Bisogna superare definitivamente quelle leggi che hanno incentivato la precarietà del lavoro, a partire dal Jobs act e lavorare per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, nonché ripristinare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, secondo i contenuti compresi nell’iniziativa del gruppo parlamentare di LeU.
Anche al lavoro autonomo vanno riconosciute tutele reali, non solo per la maternità, l’inattività, gli infortuni, ma anche mediante una regolazione dei rapporti con i committenti, l’eliminazione delle clausole abusive, il riconoscimento di un equo compenso, proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto.
10. PERCHÉ SERVE UNA NUOVA POLITICA INDUSTRIALE
Sono necessari investimenti pubblici. Un euro messo in tagli fiscali produce un moltiplicatore produttivo dello 0,8 per cento; un euro messo in investimenti produce un moltiplicatore del 2 per cento. Per quanto riguarda il nodo dello sviluppo economico, il dato di fondo è il restringimento della base produttiva italiana che è avvenuto più rapidamente e con una minore capacità di reazione che in altri Paesi europei, secondo la formula di una crescita senza ripresa. Certo, pesano tare antiche di organizzazione del capitalismo nostrano, con piccole e medie imprese che un tempo sono state la fortuna competitiva e anche l’originalità dell’Italia, ma oggi non riescono più a stare al passo con i processi di globalizzazione e di delocalizzazione del lavoro. Abbiamo punte avanzate di eccellenza che, quando competono, sono in grado di farlo a livello mondiale, ma la base della piramide, quella che costituisce la spina dorsale di un apparato produttivo solido, è in notevole affanno e cresce di meno – a parità di condizioni di uscita dalla più lunga crisi economica del dopoguerra – rispetto ad altri Paesi europei.
Sotto questo profilo il nodo da sciogliere non è tanto quello di un ormai usurato tiro alla fune con l’Europa sulle percentuali di flessibilità da conquistare, facendo finta che il debito pubblico non continui a pesare sui nostri figli come un macigno, ma una maggiore determinazione nel chiedere, e soprattutto nel praticare, una politica d’investimenti produttivi, anche a rischio d’infrazione, scorporata dai vincoli europei.
Bisogna rompere le rendite di posizione vecchie e nuove, evitare che le imprese attendano il profitto dalla compressione delle retribuzioni, dalla debolezza dell’euro, da spese pubbliche e agevolazioni fiscali indifferenziate come i bonus. Le imprese vanno invece stimolate attraverso politiche industriali mirate, con chiare priorità settoriali e territoriali, aiutate da investimenti in quelle infrastrutture – messa in sicurezza del territorio, ricerca e sviluppo, scuola, sanità, trasporti, Ict, utilities – che tanto contribuiscono alla produttività del sistema.
Una politica industriale a sostegno di strategie industriali utili a presidiare mercati mondiali e conquistarne altri, in particolare dei paesi da cui provengono gli immigrati in Italia. La rivoluzione informatica, che caratterizza l’industria 4.0, deve vedere l’industria italiana impegnata, anche con il sostegno pubblico, a innovare i sistemi produttivi ancora energivori verso tecnologie green già presenti nel sistema della ricerca nazionale. Tecnologie utili a ridurre costi energetici ed emissioni in atmosfera e le tariffe dei servizi ambientali. Una strategia per costruire una nuova generazione di macchine e impianti utili a ricostruire competitività all’industria di base, a sviluppare l’economia circolare (da rifiuti e reflui a miscele di polvere per produzioni 3D e meno energivore) a riconquistare mercati dentro la globalizzazione dei sistemi di produzione. Una opportunità per ricollegare piccole e medie imprese a filiere e a distretti produttivi in grado di creare loro prospettive redditive e buona occupazione.
Siamo una nuova sinistra sociale e politica che scommette su una globalizzazione dell’economia reale che, stante la presenza in Italia di cittadini provenienti da centinaia di nazioni, deve impegnare il paese a contrastare la visione neoliberista e finanziaria della globalizzazione. In particolare, con un approccio che aggiunga al governo delle criticità occupazionali legate all’immigrazione il valore di risorsa degli immigrati e dei loro figli nati in Italia nel farci comprendere culture e opportunità di relazioni economiche di reciproco vantaggio con i loro paesi d’origine.
Un contributo quindi alla sinistra italiana ed europea affinché la globalizzazione torni a essere una opportunità di sviluppo della nostra crescita economica dentro le dinamiche reali dell’economia mondiale nell’era della nuova Via della Seta. Dinamiche utili a recuperare una capacità dell’Italia di tornare a essere protagonista dei commerci mondiali come lo fu nei secoli precedenti, sia sulle produzioni di qualità che sulle commodity; con vantaggi di competitività nel riorganizzare e rendere meno costoso l’attuale sistema di intermediazione del paese.
11. PERCHÉ E COME RIPENSARE IL FISCO PER PROTEGGERE LE PERSONE E RAFFORZARE LO STATO SOCIALE
Sul fronte ridistributivo occorre ripartire dal fisco, ribadendo, anzitutto, che siamo contro ogni forma di condono, che premia i comportamenti illegali ai danni della comunità. Siamo, invece, a favore di un contrasto rigoroso e continuativo all’evasione e all’elusione fiscale che foraggiano corruzione, illegalità e lavoro nero. Un contrasto che si fa non con annunci di pene capitali, ma potenziando la tracciabilità elettronica delle transazioni e favorendo l’incrocio delle banche dati.
Ci opponiamo, in primo luogo, all’introduzione di una «Flat Tax», che scarica tutto il peso del prelievo sui ceti medi, e siamo invece per una riformulata progressività fiscale su tutta la scala dei redditi. Anche i patrimoni, con la dovuta esenzione per quelli d’importo medio e medio-basso, dovrebbero essere tassati in modo progressivo.
A questo proposito sarebbe giusto riflettere senza avere preclusioni ideologiche sull’introduzione di una tassa patrimoniale di scopo, sulle grandi ricchezze, che serva a finanziare un programma straordinario di cura e di manutenzione del territorio. Così anche non siamo pregiudizialmente contrari alla definizione di una tassa di successione sui grandi patrimoni che va strutturata con l’obiettivo di incentivare la ridistribuzione e non di punire chi li possiede collegandola a sostenere e a rafforzare il diritto allo studio, la grande cenerentola degli interventi legislativi di questi ultimi anni. L’innovazione tecnologica, se non opportunamente indirizzata, ridurrà strutturalmente le possibilità di lavoro. Bisogna allora procedere alla riduzione dell’orario di lavoro e valutare l’introduzione di un reddito di cittadinanza davvero universale e non condizionato. Esso si può finanziare con un’opportuna ridistribuzione, anche con misure fiscali, del valore aggiunto di cui adesso si appropriano pochi imprenditori e manager. : va strutturata per incentivare la ridistribuzione non per punire chi ha i patrimoni,
Bisogna, inoltre, modificare il finanziamento delle spese di welfare, che ancora oggi avviene in buona parte con prelievi sui redditi di lavoro, e spostare il prelievo sul valore aggiunto.
Si tratta di un obiettivo ineludibile perché negli ultimi anni la ridistribuzione del reddito è cambiata e quello da lavoro ha perduto 10-15 punti in percentuale, con i salari che sono al 48 per cento mentre negli anni Novanta erano al 60 per cento. Di conseguenza, non è più possibile finanziare il sistema di welfare soltanto sui prelievi da lavoro e bisogna pensare a dei contributi generali su tutto il reddito prodotto, ad esempio, tassando i robot così da diminuire la pressione fiscale sul lavoro e i lavoratori e aumentarla sul capitale.
La difesa del welfare e la sua rifondazione sono un obiettivo cruciale per un partito di sinistra. La garanzia dell’accesso universale a istruzione e sanità è un potente mezzo di ridistribuzione, ma anche uno strumento fondamentale per contrastare le ingiustizie che si generano sul mercato del lavoro.
È necessario invertire il de-finanziamento dell’istruzione, primaria, secondaria e universitaria, messo in atto in particolare dai governi del centrodestra, che spinge verso un sistema sempre più bloccato, non soltanto ai meno abbienti, ma anche a causa di selezioni affidate a numeri chiusi realizzati con test-lotterie. Serve, invece, una programmazione delle esigenze professionali del nostro Paese, che dovrebbe anche essere finalizzata a favorire l’inserimento di giovani competenti nella nostra amministrazione pubblica; non soltanto nel campo della gestione e programmazione degli investimenti pubblici, ma anche in tutti gli ambiti del welfare, a iniziare dalla sanità, che è oggi in particolare sofferenza per la carenza, attuale e prospettica, di addetti.
Vogliamo contrastare sia la privatizzazione strisciante del sistema sanitario nazionale, sostenuta anche da incentivi fiscali, sia il ritorno a un sistema di tutele incardinato sul rapporto di lavoro, che in un mercato polarizzato garantirebbe soltanto parte della popolazione. Vogliamo, invece, garantire a tutti il diritto alla salute, anche monitorando l’attuazione dei livelli essenziali di assistenza su tutto il territorio nazionale, e rendendo accessibili i farmaci innovativi efficaci anche a chi non ha i soldi per pagarseli.
Un’attenzione speciale deve essere risolta alla promozione di una migliore assistenza ai disabili con l’adozione di un piano sociosanitario per la non autosufficienza incentrato sull’assistenza domiciliare in base alla funzione del bisogno di ciascuno. Questo piano dovrà definire anche una serie di azioni per le persone con disabilità, per favorire la loro vita indipendente, a partire dalla scuola, dal mondo del lavoro, dall’accessibilità dei luoghi pubblici e dalla mobilità.
Avanziamo un ampio ripensamento del sistema pensionistico che, senza scardinare il principio contributivo, affronti il tema delle drammatiche prospettive pensionistiche per i giovani, che entrano sul mercato del lavoro con contratti precari e frammentati, e per le donne, con carriere discontinue. A questo proposito occorre riconoscere, a fini pensionistici e con modalità adeguate, anche i periodi di formazione, di lavoro di cura e di ricerca attiva di un’occupazione.
Vogliamo ridiscutere il meccanismo che aggancia l’età pensionistica alle aspettative di vita, anche per tenere conto delle diverse articolazioni delle aspettative di vita in funzione della professione svolta.
Ci proponiamo di rilanciare le politiche per la casa, partendo dal sostegno a chi vive in affitto, e creando una maggiore disponibilità di abitazioni sul mercato immobiliare.
Vogliamo superare la frammentarietà degli interventi e i bonus temporanei, che disperdono a pioggia, con dubbia efficacia e sicura iniquità, le scarse risorse disponibili per le politiche sociali, e concentrarci, invece, su programmi universali – di contrasto alla povertà, contro la non autosufficienza – che non si esauriscano in meri trasferimenti monetari, bensì che integrino e attivino l’offerta di servizi da parte degli enti decentrati.
12. PERCHÉ E COME RIPENSARE LA DIFFERENZA DI GENERE
Occorre ridurre le disparità nelle retribuzioni, sia quelle tra generi (prevedendo sanzioni per chi non garantisce una parità sostanziale di salario fra uomini e donne), sia quelle fra lavoratori e manager (ad esempio, rendendo indeducibili quelle che superano un certo ammontare). Bisogna, inoltre, ridurre le barriere all’ingresso e alla permanenza delle donne sul mercato del lavoro, che derivano, principalmente, dalla cura dei figli e dei familiari non autosufficienti, attraverso un potenziamento dei congedi per paternità, rendendo meno onerosi quelli per malattia dei figli, potenziando la rete dei servizi, a cominciare dagli asili nido, riducendo i costi di quelli rivolti alla fascia fra zero e due anni.
Un’attenzione particolare deve essere dedicata a contrastare la violenza maschile nei confronti delle donne, iniziando da quella domestica.
Ma bisogna anche garantire una diffusione omogenea sul territorio nazionale dei centri antiviolenza e dei servizi territoriali che aiutino le donne che subiscono violenza e i loro figli. Occorre garantire alle donne che intendono separarsi da un marito violento adeguato sostegno e protezione, negando in ogni caso l’affido condiviso dei figli a uomini che si siano resi responsabili di violenza.
È anche necessario contrastare con determinazione i tentativi di regressione messi in atto dalla destra sui temi dell’aborto, della sessualità femminile, dei ruoli familiari.
13. PERCHÉ È GIUSTO CHE LA LIBERTÀ E LA SICUREZZA SIANO GARANTITE INSIEME
Nella storia europea la libertà e la sicurezza sono due diritti «naturali e imprescrittibili dell’uomo», riconosciuti insieme dalla Rivoluzione francese nella dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789.
Ciò è avvenuto perché uno è vicendevolmente condizione dell’altro: se siamo sicuri possiamo essere liberi, se siamo liberi possiamo vivere in sicurezza, soprattutto nel caso in cui si provenga da condizioni socialmente svantaggiate o marginali.
Ovviamente, davanti a una domanda e a un bisogno di sicurezza non si può rinunciare alla libertà, così come, davanti a una richiesta e a un bisogno di libertà, non si può rinunciare alla sicurezza che è la condizione in cui quella libertà possa germogliare per davvero e viceversa.
La sinistra deve continuare a garantire il binomio tra libertà e sicurezza come fecero i rivoluzionari francesi. Sono due diritti universalistici che vanno coniugati sempre al singolare e non al plurale, altrimenti si trasformano immediatamente in privilegi di censo e in rivendicazioni corporative.
Per questo la loro piena realizzazione non può essere disgiunta da una battaglia per l’uguaglianza delle opportunità e delle condizioni di partenza tra tutti gli uomini e le donne. La stella polare della nostra azione delle essere il valore universalistico della solidarietà, di matrice socialista e cristiana, senza il quale la sinistra cesserebbe, semplicemente, di essere se stessa, perché smetterebbe di guardare il mondo con gli occhi dei più deboli e degli esclusi.
Ovviamente, il diritto alla sicurezza e quello alla libertà riguardano la vita di tutti i cittadini che devono poterli vivere non soltanto quando abitano nei centri storici delle grandi città o nei comprensori per ricchi, circondati da muri e da sbarre di ingresso con vigilantes alla porta. No: devono poterli toccare con mano, e la sinistra ha il dovere di impegnarsi fattivamente in tal senso, anche quando camminano da soli per strada, rientrano tardi la sera, si trovano in una metropolitana o su una corriera e non appartengono a condizioni sociali privilegiate.
Sono soprattutto i più deboli che devono essere protetti con la forza della legalità e delle regole, due principi di cui i forti e i già garantiti possono fare tranquillamente a meno. Anche questa è una grande e ineludibile questione di uguaglianza, che deve occupare un nuovo partito «rosso-verde» della sinistra italiana ed europea.
La questione della sicurezza si collega direttamente al tema della legalità e del rispetto delle regole. Uno snodo cruciale che nel nostro Paese deve portare alla definizione di un efficace piano di contrasto alle varie forme di criminalità diffuse sul territorio, a partire dalla malavita organizzata (dalla mafia, alla camorra, alla ‘ndrangheta alla sacra corona unita) che hanno raggiunto da tempo una dimensione nazionale e internazionale e rappresentano un pesante macigno sulla strada dell’affermazione dei diritti e delle libertà fondamentali di tutti i cittadini.
14. PERCHE’ SERVE UNA SOCIETA’ APERTA E MULTICULTURALE CHE GARANTISCA PROTEZIONE E INTEGRAZIONE
Una nuova forza socialista non può dirsi autenticamente tale se pone in contrasto il legittimo e comprensibile bisogno di sicurezza con la costruzione di una società aperta e multiculturale, impegnata, in un quadro sovranazionale ed europeo, nella conversione delle migrazioni da fenomeni problematici e complessi a opportunità di sviluppo culturale, economico e sociale per la comunità.
La nostra battaglia politica di opposizione nelle istituzioni e nel Paese, nelle piazze e nelle scuole, sui temi dell’accoglienza, dell’integrazione e della cittadinanza, può in tal senso essere il punto di svolta di un rinnovato impegno di ricostruzione della sinistra in questo Paese e in Europa.
È necessario partire dalla definizione di un nuovo modello sociale di protezione che riconosca effettivamente e a tutti, come indicato nella nostra Costituzione, l’accesso al lavoro, alla casa, all’istruzione ed alla sanità, ovvero a quei servizi universali che qualificano le condizioni di cittadinanza all’interno di una democrazia compiuta e che consentono di di respingere il messaggio discriminatorio.
Sul fenomeno – epocale, ciclico e continuo – delle migrazioni, è necessario applicare un’analisi differenziata. Secondo noi, il flusso dei migranti deve essere regolato tenendo insieme il trinomio accoglienza-solidarietà-diritti con il binomio politiche di integrazione e di sicurezza.
Serve un’opportuna ed equilibrata gestione dei flussi migratori e il finanziamento di apposite politiche di integrazione, a partire dal riconoscimento che la quantità e la qualità di essa non è una variabile indipendente inesauribile, bensì è condizionata dalle concrete possibilità di accoglienza e di gestione dei problemi sociali e politici che possono derivarne. Integrazione e accoglienza sono politiche sociali che devono camminare insieme. Bisogna prevedere e favorire canali regolari di ingresso, attraverso una nuova legge sull’immigrazione che sostituisca la legge Bossi-Fini, il cui fallimento è sotto gli occhi di tutti.
Un discorso diverso, invece, deve concernere i profughi e i rifugiati, ossia quanti fuggono dalle guerre e dalle persecuzioni politiche, per cui la nostra Costituzione già riconosce il diritto d’asilo: su questo bisogna essere inflessibili, combattendo il tentativo della destra di fomentare una guerra tra poveri, mescolando e sovrapponendo le due questioni sotto la specie di un unico stigma. In sede europea, è necessario concentrare ogni sforzo verso un’adeguata riforma del trattato di Dublino, con l’obiettivo di creare un sistema comune di asilo basato sui principi di solidarietà e di equa condivisione delle responsabilità tra i Paesi membri che sono alla base dell’unione e dei trattati europei.
Ancora differente è il fenomeno di quelle centinaia di migliaia di persone immigrate che lavorano in Italia ormai da svariati decenni, contribuendo a mandare avanti le nostre industrie, curando e assistendo i nostri anziani e malati, esercitando la professione commerciante nei più diversi settori lavorativi. Costoro pagano le tasse a livello comunale e nazionale e sostengono con i loro contributi il sistema pensionistico (il più delle volte «a perdere», cioè senza maturare il diritto a un assegno), ma sono ancora privati del più elementare dei diritti, quello di voto.
Questi lavoratori stranieri, stabilizzati in Italia da molti anni, non possono neppure esprimere un giudizio, almeno a livello locale, sulle amministrazioni cui pagano le tasse (per la raccolta dell’immondizia, per mettere un’insegna), in evidente violazione di quel principio liberale classico per cui «No taxation without representation».
Oppure, per individuare una casistica ulteriore, si pensi ai loro figli, nati e cresciuti in Italia che parlano italiano, che sono stati scolarizzati qui e che non possono godere della cittadinanza secondo il principio dello «ius soli», il passo decisivo per definire un corretto percorso di integrazione tra diritti e doveri, due dimensioni che devono sempre essere congiunte.
Come richiamato nella proposta di legge da noi sostenuta a favore del riconoscimento del principio dello «ius soli», l’acquisizione della cittadinanza non può costituire una sorta di privilegio da elargire discrezionalmente e a seguito di un tortuoso percorso burocratico, ma deve essere acquisita – con maggiore facilità, regole certe, procedure chiare e tempi accettabili – quale strumento essenziale di un’effettiva e piena integrazione nell’adempimento di doveri e nella fruizione di diritti.
Il soggetto politico nascente, che si propone di ricostruire una vera e popolare forza di sinistra in questo Paese, deve fare della nuova organizzazione un presidio democratico capace di chiamare a raccolta energie e risorse dei militanti, dei simpatizzanti e del vasto settore civico ed associativo nella fase di partecipazione attiva e di elaborazione politica sui temi dell’immigrazione e della cittadinanza. Questi «mondi» possono e debbono ritrovare nella nostra forza organizzata e nella nostra capacità di mobilitazione un solido e credibile punto di riferimento a difesa delle fasce più deboli e più esposte agli effetti diretti di campagne discriminatorie e di politiche regressive della destra.
15. PERCHÉ E COME RICONSIDERARE LA «QUESTIONE MERIDIONALE» DENTRO LA «QUESTIONE EUROPEA»
Negli ultimi venticinque anni lo Stato si è progressivamente ritratto nei confronti del lavoro e del Mezzogiorno e ha determinato, subendo la logica del mercato e del liberismo, una diffusione delle disuguaglianze ai più alti livelli d’Europa.
Rispetto al fenomeno dell’immigrazione, il Sud è segnato da un considerevole flusso verso il Centro-Nord e verso l’estero, con una perdita di capitale umano e sociale senza precedenti.
Sul versante dell’istruzione, il sistema scolastico e universitario del Meridione esprime professionalità che il tessuto produttivo locale, anche perché scollegato dall’alta formazione e dalla ricerca universitaria, non riesce ad assorbire e valorizzare, relegando molti giovani nella condizione di dover scegliere fra l’emigrazione, l’arrangiarsi con posizioni precarie e l’inattività. Anche sul fronte dei servizi, tutti gli indicatori di qualità segnalano un divario crescente rispetto al Centro- Nord, con un riferimento marcato al settore socio-sanitario, alla cura, alla vivibilità, alla sicurezza e all’istruzione primaria che interessa i grandi e i piccoli centri.
Nonostante ciò, l’apparato produttivo rimasto al Sud sembra essere in condizioni di ricollegarsi alla ripresa nazionale e internazionale, come dimostra anche l’andamento delle esportazioni. Tuttavia, permane il rischio che, in carenza di adeguate politiche di sostegno allo sviluppo e alla costruzione strategica di infrastrutture come porti e interporti, non si riescano a mantenere neppure gli standard attuali.
È necessario intervenire con un piano straordinario per il lavoro di cittadinanza, innanzitutto per svecchiare una Pubblica amministrazione sclerotizzata e clientelare e, allo stesso tempo, liberare gli enti locali da un patto di stabilità che li sta strozzando con conseguenze sociali drammatiche.
Sarebbe, però, riduttivo e autoassolutorio considerare la situazione critica del Mezzogiorno dipendente soltanto da uno scarso sostegno allo sviluppo con apposite erogazioni di fondi. Il problema è come mai, sin dai tempi degli ingenti investimenti della Cassa del Mezzogiorno, l’Italia meridionale non è stata in grado di creare uno sviluppo autonomo e auto-propulsivo.
Il Sud sconta una presenza pervasiva nel tessuto economico e civile della criminalità organizzata (camorra, mafia, ‘ndrangheta, sacra corona unita) e l’esistenza di una grande questione di legalità che scoraggia gli imprenditori italiani e stranieri a investire nel meridione Si tratta di organizzazioni criminali con una proiezione internazionale e un’estensione e un radicamento ormai a livello nazionale soprattutto nel mercato legale dell’edilizia e in quello illegale della droga e dell’usura. Le pressioni economiche, sociali e civili dispiegate dalle diverse mafie alterano le condizioni di investimento delle imprese con la pratica del taglieggio sistematico (il cosiddetto «racket del pizzo»). Inoltre, condizionano le forme e i modi di organizzazione della politica, aumentano il tasso di corruzione e, soprattutto, impauriscono e demoralizzano la società civile, cui forniscono beni e servizi di assistenza e protezione che lo Stato ha difficoltà a erogare. Senza certezza del diritto e in condizioni di continuo ricatto ambientale, la piccola impresa locale non potrà mai svilupparsi liberamente lasciando il corpo sociale del Sud d’Italia stretto da un cappio al collo che limita le sue potenzialità e speranze di crescita.
Un altro problema antico ma sempre presente concerne l’inefficienza delle pubbliche amministrazioni (si pensi, ma è solo un esempio, alla sanità che costringe tanti meridionali a veri e propri viaggi della speranza nel Centro-Nord) e un problema di formazione delle risorse umane.
L’area del Mediterraneo è stata fondatrice dell’Europa e non è al di fuori della logica della globalizzazione, tanto che potrebbe diventare il punto di un nuovo equilibrio non soltanto economico ma anche sociale dell’intera area continentale. Nel suo ambito si è determinata, negli ultimi tempi, la formazione di tre grandi aree: il Mediterraneo comunitario, con Spagna, Francia, Grecia e Italia; il Mediterraneo arabo con Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Libano, Siria; il Mediterraneo orientale, i Balcani, con le loro articolazioni e propaggini fino alla Turchia, Cipro e Israele.
La «questione meridionale» coincide con l’apertura delle frontiere mediterranee e il suo destino è strettamente connesso a questo processo che va riorientato con il potenziamento di un asse di sviluppo verso i Paesi del Sud.
16. PERCHÉ È NECESSARIA UNA SCUOLA COME COMUNITÀ EDUCANTE CHE RIPARTA DALLA COSTITUZIONE
L’istruzione scolastica e universitaria e il mondo della cultura sono un settore nevralgico su cui bisogna concentrare sforzi straordinari perché, se esiste un settore per il quale sarebbe giusto che altri ambiti rinunciassero a qualcosa, è quello della formazione e della ricerca.
La «Buona scuola» è stata una cattiva riforma e ha creato una grave frattura tra il campo democratico e progressista e il mondo degli insegnanti che bisogna provare a ricomporre. È urgente investire in una scuola pubblica di qualità, affinché tutti possano godere di uguali diritti e opportunità.
Bisogna combattere l’abbandono precoce, la flessione delle iscrizioni nelle nostre università, la sfiducia dei ricercatori, la demoralizzazione di un corpo docente sottopagato e sempre meno riconosciuto nella sua funzione sociale e culturale. È necessario promuovere una migliore assistenza ai disabili, valorizzare i modelli educativi del tempo pieno, rinnovare gli edifici e metterli in sicurezza, sostenere la ricerca, l’innovazione e la valorizzazione del nostro patrimonio culturale, storico e artistico.
Dobbiamo offrire una nuova prospettiva alle imprese individuando grandi aree di investimento, di ricerca, di innovazione nell’agricoltura, nell’industria e nei servizi.
Più precisamente, una società moderna e democratica, in grado di affrontare le sfide della tecnologia, dell’inclusione, della globalizzazione, ha bisogno anzitutto di cittadini che sappiano agire nell’ambito di un quadro di valori democratici, quali sono quelli della nostra Costituzione, e che abbiano la preparazione culturale per affrontare sì il mondo del lavoro, ma anche per continuare a imparare per tutta la vita ed essere consapevoli dei propri diritti. Infatti, soltanto cittadine e cittadini consapevoli e preparati possono contribuire in modo efficace alla crescita e al benessere del Paese. Al sistema di Istruzione pubblico spetta questo importante compito: dalla scuola d’infanzia all’Università, è lì dove si formano le cittadine e i cittadini di domani.
Tutti gli esperti del settore riconoscono che gli investimenti in una scuola di qualità rendono più ricco e migliore il Paese che li effettua. Un sistema scolastico di qualità costa. In questi ultimi venti anni si è invece preferito usare il sistema di istruzione come un mezzo per far cassa e così si è risparmiato sul futuro del Paese. Nascondendosi dietro apparentemente neutre affermazioni di efficientamento e miglioramento della qualità, obiettivi astrattamente condivisibili, ma da perseguire in modi opposti a quanto fatto sino ad oggi, si è trasformata la scuola in un luogo dove la cultura è passata in secondo piano.
Ai futuri cittadini si cerca di impartire solo le poche nozioni ritenute necessarie per poter entrare, con un ruolo sempre più passivo e precario, in un mercato del lavoro asfittico, che invece avrebbe bisogno di persone motivate, ben preparate, consce di portarsi dietro, in qualsiasi lavoro, l’eredità e i valori di una tradizione culturale che ci ha visto, in passato, primeggiare non solo nelle arti e nelle lettere, ma anche nella tecnologia e nella ricerca. Noi siamo la Patria di Rita Levi Montalcini e di Adriano Olivetti, solo per citare due italiani usciti dalla scuola italiana di una volta, e siamo la patria di quella moltitudine di operai e piccoli imprenditori o artigiani che hanno contribuito, nel dopoguerra, a rendere l’Italia una delle più grandi potenze industriali del mondo.
Invece si è attuata nei confronti della Scuola una politica figlia della stessa subalternità culturale al neoliberismo che abbiamo visto trionfare in altri settori: dalle politiche del lavoro al welfare. Concetti teoricamente condivisibili, come efficienza, merito, autonomia di organizzazione, assunzione di responsabilità, valutazione di sistema, apertura verso il mondo esterno, sono stati declinati secondo la più estrema delle concezioni liberiste, assoggettando la scuola a valori tipicamente aziendali, nell’accezione negativa che si può attribuire a questo termine e in questo contesto.
Ciò ha portato a confondere il riconoscimento del valore degli insegnanti con un sistema a punti per attribuire improbabili premi in denaro; a confondere l’importante ruolo di guida e di stimolo del dirigente con quello di un manager aziendale; l’autonomia organizzativa con la partecipazione ad un mercato concorrenziale per reperire «fondi e utenza»; il dovere di inclusione con l’abbassamento degli obiettivi culturali. Ciò ha indotto a valutare la scuola solo sulla base di risultati ottenuti in indagini quantitative internazionali, che non possono cogliere, se non in misura del tutto marginale, il contributo che la Scuola dà al Paese.
Una scuola povera, senza mezzi, con insegnanti mortificati crea – al di là del valore umano e professionale dei singoli – una società frantumata e rancorosa in cui la lotta tra poveri inizia tra i banchi perché non tutti possono permettersi di pagare le attività sportive, culturali, ricreative, la mensa, i materiali didattici.
Dobbiamo ripartire da una scuola che si fa comunità educante, che si dà l’obiettivo fondamentale di contrastare la dispersione scolastica e di creare condizioni di uguaglianza sostanziale, come sancito dal secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione. Dobbiamo realizzare una scuola ancorata ai principi costituzionali, realmente gratuita, riqualificando e ampliando il «tempo scuola», moltiplicando l’offerta pubblica di nidi, rendendo universale la scuola dell’infanzia.
Serve una scuola che includa e che consenta a tutti i capaci e meritevoli di accedere gratuitamente ai più alti gradi dell’istruzione universitaria, che permetta di essere realmente preparati per affrontare le sfide dei prossimi anni, una scuola che sappia rapportarsi con la società che la circonda: imprese, associazioni di volontariato, sindacati, istituzioni, ma sempre con l’autonomia e la dignità che le competono.
17. PERCHÉ SERVE UNA NUOVA SOCIETÀ DELLA CONOSCENZA CON UN’UNIVERSITÀ E UN MONDO DELLA RICERCA DI QUALITÀ
Le consistenti mutazioni sociali, politiche, economiche, ma soprattutto tecniche e tecnologiche che caratterizzano il nostro tempo rendono necessario un costante aggiornamento delle conoscenze da parte di tutti coloro che vogliono essere parte attiva della società (learning society).
La conoscenza non solo aggiunge valore agli altri fattori produttivi (la terra, il capitale, il lavoro manuale), principalmente mediante le tecnologie, ma oggi rappresenta essa stessa un bene al centro di scambi crescenti (economici e non) e un vero fattore produttivo capace di mettere in crisi interi settori economici.
La conoscenza diviene, così, mezzo e fine immediato in un numero crescente di interazioni fra gli individui. Si creano, però, nuove occasioni di esclusione e disuguaglianza, forse meno cruente e meno visibili, ma perciò ancora più infide e sfuggenti.
Anche per questo motivo i temi specifici dell’istruzione terziaria, della ricerca, della formazione, dell’innovazione, della diffusione della conoscenza, delle arti e della musica, sono condizioni imprescindibili per uscire dalla crisi e per ripensare il futuro del nostro Paese.
L’accesso all’Università, alle Accademie ed ai Conservatori non è solo un diritto individuale di accesso a un servizio ma un investimento strategico. Nel corso dell’ultimo decennio si tolto di più di 1 miliardo di euro al Fondo di Finanziamento Ordinario e bloccato il turn over. I risultati sono stati catastrofici: il calo degli immatricolati ci ha portato al penultimo posto in Europa per numero di laureati; il numero di docenti di ruolo e crollato e i giovani ricercatori sono diventati ancora più precari. Le politiche degli ultimi 10-15 anni hanno indebolito il sistema universitario nazionale, spostando le poche risorse verso pochi poli auto-proclamatisi d’eccellenza, provocando la desertificazione di interi sistemi accademici territoriali con un grave impatto soprattutto nel Mezzogiorno.
Senza adeguati finanziamenti, si lede il diritto all’istruzione. Senza risorse ogni riforma, ogni intervento di programmazione, valutazione e indirizzo è pregiudicato o stravolto. Ma l’università non è uno spreco di finanziamenti, è un investimento in ricerca e sviluppo che porta vantaggi a tutto il Paese. Un aumento delle risorse è dunque la prima condizione per invertire la rotta.
Occorre agire anche sulle modalità di distribuzione dei finanziamenti, contro lo screditamento del sistema pubblico di istruzione e della ricerca che ha portato a dirottare le risorse verso aiuti indiscriminati di dubbia utilità a poche imprese, senza che a ciò sia corrisposto, peraltro, un aumento della loro capacità di innovazione, o a Fondazioni di Diritto privato concentrate quasi sempre nel Nord Italia.
All’interno del problema nazionale di riduzione dei finanziamenti alle Università, c’è una gravissima questione meridionale con spostamento di risorse dal Sud al Nord che si concretizza in diversi modi. Uno è basato su minori finanziamenti agli Atenei in coda alle classifiche di qualità della didattica e della ricerca. Ovviamente chi ha più finanziamenti meglio riuscirà a produrre didattica e ricerca di qualità, in un circolo vizioso che rischia di portare alla chiusura di alcuni Atenei nel Mezzogiorno.
Una finta e interessata retorica del merito mira a creare in Italia poche Università di eccellenza, tutte concentrate nel Nord, di fatto desertificando il Meridione e parte del Centro da cultura e saperi (ma anche zone del Nord, si pensi alla Liguria, per esempio). Tutto ciò coltivando erroneamente l’idea che il Paese possa migliorare e crescere se ci sono punte di eccellenza, concentrate in alcune zone.
La strada da percorrere è invece completamente diversa: finanziare e favorire una buona qualità e competenza diffusa su tutto il territorio nazionale, che, peraltro esiste già, e, appunto, andrebbe favorita e potenziata. In Italia l’università è sempre più riservata ai ceti benestanti: solo il 22 per cento dei giovani che la frequentano, secondo Almalaurea, ha una origine sociale «meno favorita». Tuttavia il nostro Paese non si impegna a rimuovere le barriere economiche all’accesso all’istruzione terziaria.
L’Italia risulta uno dei paesi col più basso rapporto tra idonei alla borsa di studio e iscritti all’università. Per ribaltare questo stato di cose bisogna affermare la prospettiva di un ampliamento della gratuità dell’istruzione universitaria. L’innalzamento dei livelli di istruzione attraverso la generalizzazione dell’accesso all’università rappresenta, infatti, deve rappresentare un obiettivo strategico per tutto il paese.
Riteniamo che solo una scuola «felice» e piena di dignità possa essere per davvero buona. Solo un Paese che ritiene strategici settori quali l’istruzione, l’università, la ricerca, l’innovazione, possa migliorare il suo sviluppo economico, aumentare le occasioni di lavoro e incrementare il proprio livello di democrazia, di legalità, di competività.
18. PERCHÉ BISOGNA RIFORMARE LO STATO A PARTIRE DAGLI ENTI LOCALI E DALLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Sussiste una stretta relazione tra la crisi della democrazia e la necessità di procedere a riforme istituzionali riguardanti l’architettura dello Stato, a partire dagli enti locali.
Immaginiamo una nascente forza politica della sinistra come fortemente dedicata a sanare le ferite che in queste anni sono state inferte al rapporto tra lo Stato e il sistema degli enti locali.
È necessario ripartire dalle fondamento di un nuovo ragionamento «costituzionale» sul ruolo delle autonomie. Va ricordato che esse sono definite dalla Costituzione quali veri e propri soggetti costitutivi della Repubblica, con competenze diverse da quelle dello Stato ma con pari dignità istituzionale. Non vi è chi non veda la profonda contraddizione tra la pari ordinazione che a questi enti e costituzionalmente riconosciuta e la sorte ad essi toccata negli ultimi anni: una vicenda, questa, che richiede con forza di «tornare alla Costituzione».
Si pensi al destino delle Province. Prima, oggetto di una riforma molto attenta all’immediato consenso e molto poco alla ricaduta sui servizi che ancora esse gestiscono. Poi, addirittura, definite da una legge di revisione come elementi da eliminare con un tratto di penna dalla Carta costituzionale. Respinta dai cittadini quella proposta, le Province italiane si trovano ora in un vero e proprio limbo amministrativo e politico: allontanate dal rapporto con i cittadini che non concorrono più alla definizione del loro indirizzo ma ancora destinatarie di importanti attribuzioni e della responsabilità di fondamentali servizi. La storia di queste istituzioni è quella di un vero e proprio sacrificio eseguito sull’altare dell’antipolitica, una brutta pagina che spetta alla sinistra di riscrivere.
E cosa dire dei Comuni? Da un lato, essi sono destinatari ai sensi dell’art. 118 Cost. della generalità delle funzioni amministrative, con salvezza di quelle che devono necessariamente essere amministrate ad altro livello secondo principi di sussidiarietà e di adeguatezza. Dall’altro, sono regolati da un sistema elettorale che porta fisiologicamente la cittadinanza a identificarsi con la figura del Sindaco: ciò che pure è corretto, dal momento che «Comune» altro non significa che organismo rappresentativo di una comunità e del suo destino. Nonostante questa fondamentale prerogativa, i municipi sono stati da un lato oggetto dei più bizzarri esperimenti politico-elettorali (dall’abolizione dell’ICI alla vicenda recente dei fondi alle periferie), dall’altro messi in condizioni di estrema difficoltà operativa per i forti vincoli posti alla loro azione. Oggi, la difficoltà dei Comuni a garantire i servizi che pure spetterebbe loro di operare sul territorio È l’epicentro più grave della crisi che intercorre tra la cittadinanza e le istituzioni. È dunque necessario lavorare per riassegnare a questi enti una capacità di spesa congrua all’enormità delle sfide che devono affrontare. Magari, senza che debbano più ricorrere per sola necessità a processi di progressiva esternalizzazione di funzioni, un’opzione che non porta tanto all’efficienza dei servizi comunali, quanto all’impossibilità di gestirli in modo efficace.
Del resto, proprio il livello comunale è quello in cui l’Italia potrebbe sviluppare una nuova cultura dell’universalità dei servizi connessi ai diritti fondamentali. Perché, ad esempio, abbandonando la logica dei bonus, non si possono aiutare i Comuni a rendere interamente gratuito l’accesso al patrimonio culturale di loro competenza? Perchè, ancora, non sviluppare città per città una sfida sulla gratuità assoluta del trasporto pubblico locale come presidio di cittadinanza ma anche di difesa dell’ambiente? Perché non investire ancora di più sul ruolo dei Comuni nei processi di accoglienza e integrazione, a differenza della destra che quell’impegno vuole smantellare? E cosi via, settore per settore.
Certo lo stato attuale delle cose non consente agli enti locali di affrontare con sufficiente sicurezza questa e altre grandi partite, vista anche la forte sofferenza degli organici con la quale devono quotidianamente convivere. La Pubblica Amministrazione italiana nel confronto internazionale è sottodimensionata e «vecchia». Servono centinaia di migliaia di assunzioni pubbliche per consentire alla PA di coprire il turnover, lavorare meglio, innovare e affrontare le nuove sfide. Questo può consentire anche di assumere molti giovani laureati, colmando almeno in parte i limiti del sistema imprenditoriale privato. Un grande investimento su nuove e qualificate assunzioni nel comparto locale: una scommessa che non potrebbe che avere un immediato effetto moltiplicatore sulla qualità dei servizi erogati al pubblico e dunque sul rapporto tra cittadini e istituzioni. I Comuni, dunque, come avanguardia di una nuova imprenditorialità dello Stato e come primi presidi di attuazione dei diritti universali.
19. PERCHÉ E COME ORGANIZZARE L’OPPOSIZIONE PER L’ALTERNATIVA AL GOVERNO GIALLO-VERDE
Il nostro giudizio sull’attuale politica economica del governo è drasticamente negativo. La manovra di bilancio presentata è furba, iniqua e inefficace.
Furba, perché fa rialzare la testa di nuovo a quell’Italia allergica alle regole basilari del patto repubblicano: il condono fiscale rappresenta uno schiaffo a milioni di cittadini e lavoratori onesti che le tasse le hanno sempre pagate.
Iniqua, perché attraverso la «Flat Tax» mette in discussione il principio fondativo della nostra Costituzione: chi ha di più paga di più, chi ha di meno paga di meno. Perché penalizza ancora una volta le piccole imprese, cui viene tolto l’Iri, l’Ace e il superammortamento, a favore delle più grandi. Perché adotta soluzioni parziali a problemi reali, come quello dell’allungamento dell’età pensionabile, penalizzando ancora una volta giovani e donne.
Inefficace, perché gli investimenti pubblici sono ancora insufficienti, il welfare universalistico, la sanità e la scuola pubblica subiranno ulteriori tagli lineari e il reddito di cittadinanza sarà molto ridimensionato rispetto alle aspettative.
Occorre aprire una fase di opposizione dura e di merito, in grado di mostrare al Paese che c’è una via diversa tra chi si limita a difendere l’austerity e l’improvvisazione demagogica di questa stagione politica che rischia di danneggiare il lavoro e i risparmi degli italiani.
È sotto l’occhio di tutti che l’attuale compagine di governo è sempre più egemonizzata dalle pulsioni della destra regressiva, inserita pienamente dentro il ripiegamento delle società democratiche occidentali che abbiamo provato a descrivere.
Una destra della protezione che aumenterà l’insicurezza nel nostro Paese, con una dissennata liberalizzazione nell’uso delle armi, e che distruggerà con il decreto sicurezza la coesione sociale, spingendo nell’illegalità migliaia di persone non più coperte dai permessi di soggiorno umanitari e svuotando di fatto lo «Sprar», cioè l’unico sistema di accoglienza finalizzato a rendere possibile l’integrazione.
Una destra retriva sotto il profilo dei diritti civili, retrograda sui temi delle relazioni familiari e della sessualità femminile, come ben testimoniato dal disegno di legge Pillon e dalle campagne antiabortiste che hanno ripreso vigore.
In questa fase sarebbe importante impegnarsi per disarticolare l’attuale maggioranza giallo-verde, di cui una miope e sciagurata scelta politica ha favorito e persino incentivato prima la formazione e poi la saldatura in un unico blocco di potere.
Per riuscirvi, però, serve un’analisi differenziata che parta dalla constatazione che la Lega rappresenta oggi una destra regressiva con una linea politica sovranista e neo-nazionalista. Essa punta al recupero di parole d’ordine e alla legittimazione di comportamenti razzisti, xenofobi e persino neofascisti, intolleranti verso le diversità della vita e del mondo, disumani verso gli immigrati e i più deboli.
La nuova destra della Lega, dunque, costituisce il principale avversario non soltanto poiché ha una visione identitaria solida, bensì in quanto è parte integrante di un movimento strutturato a livello internazionale e può contare sul sostegno, diretto e indiretto, di forze politiche e Stati che hanno interesse a indebolire e a fare fallire il progetto dell’Unione europea.
Più contraddittorio e privo di una linea politica coerente appare, invece, il Movimento 5 stelle, che, accanto a inaccettabili posizioni sul ruolo e sulle funzioni della democrazia rappresentativa e sul valore della libertà di stampa e di informazione che devono essere contrastate con determinazione, in tutta evidenza ha saputo convincere (sia alle elezioni del 2013 sia a quelle del 2018) milioni di elettori di sinistra e di centrosinistra.
Ci è riuscito nel nome della lotta alla povertà, all’ingiustizia e ai privilegi, cui il centrosinistra, in questi anni, non ha saputo dare risposte adeguate e convincenti. Il Movimento 5 stelle va sfidato, anche in virtù delle aspettative che ha saputo suscitare e poi deludere e delle scelte politiche compiute, alleandosi con la destra leghista in un patto di potere con cui ha tradito una parte non secondaria della sua ispirazione originaria.
20. PERCHÉ SI SAREBBE DOVUTO CELEBRARE IL CONGRESSO DI LIBERI E UGUALI
Avremmo voluto che questo testo fosse una delle mozioni del congresso fondativo di Liberi e Uguali. Questa possibilità ci viene nei fatti negata, ma non per questo intendiamo fermarci. Anzi, vogliamo andare avanti con chi ci sta, con le tante donne e i tanti uomini di buona volontà che compongono il campo largo e plurale della sinistra italiana, mai così frantumato e diviso, mai, nella sua secolare storia, così inadeguato alle nuove sfide che deve affrontare e, come sempre, nei momenti di ciclica crisi, avvitato in sterili e settari dottrinarismi e in inutili processi disgregativi.
Sia chiaro: noi, non stiamo proponendo di ritornare ad Articolo 1-Mdp. Non avrebbe alcun senso. Vogliamo rimetterci in discussione in un campo nuovo. La nostra organizzazione rimane un mero strumento e il percorso nuovo che abbiamo deciso di intraprendere ci porterà comunque al superamento di quello che c’è oggi.
Siamo i primi a essere consapevoli che la nostra piccola organizzazione da sola non possa bastare. Ma non ci si venga a raccontare la favoletta che si possa provare a contrastare il fenomeno che si sta svolgendo sotto i nostri occhi a livello nazionale e mondiale – la crisi della democrazia – a colpi di cinguettii colorati d’azzurro dalla scrivania della propria magione o di narcisistiche dirette «facebook», sullo sfondo di palazzi del potere, in realtà sempre più vuoti, ma dagli stucchi ancora dorati.
Per noi, dopo gli assai deludenti risultati alle elezioni del 4 marzo 2018 e l’incerta azione dei mesi successivi, sarebbe stato necessario celebrare il congresso fondativo di Liberi e Uguali.
Questa sarebbe stata la strada maestra per uscire dallo stallo in cui la nostra proposta politica è precipitata dopo la tornata elettorale. Questa sarebbe stata la chiave di volta per tenere fede all’impegno preso con i militanti e gli elettori, prima e dopo le elezioni, ossia di trasformare una lista elettorale nel nuovo partito della sinistra italiana.
Il congresso, infatti, sarebbe stato l’unico atto pubblico in grado di restituire la parola ai nostri iscritti ed elettori mediante un confronto democratico, fondato sul principio cardine, per noi irrinunciabile, di una «testa un voto».
Soltanto con il congresso sarebbe stato possibile, in conformità a piattaforme chiare e con un confronto alla luce del sole, definire l’identità e i valori del nuovo partito, la sua collocazione all’interno delle famiglie politiche europee, le forme e le modalità della sua organizzazione. Non soltanto per via informatico-digitale, ma con i fondamentali strumenti della partecipazione diretta e della deliberazione nei luoghi fisici dei circoli e delle sezioni.
Prendiamo atto che, nel corso dell’ultimo mese di ottobre, i compagni di Sinistra italiana con le decisioni della loro direzione e un documento votato dall’assemblea nazionale, hanno stabilito di non volere celebrare alcun congresso. Inoltre, hanno proposto la costituzione, in occasione delle prossime elezioni europee, di un nuovo cartello elettorale con il sindaco Luigi De Magistris, Rifondazione comunista e altri soggetti della cosiddetta sinistra antagonista.
Si tratta di una scelta politica legittima che rispettiamo, ma che pone fine con un atto unilaterale (peraltro in scia con quanto già deciso tempo fa dall’altro soggetto promotore «Possibile») al percorso fondativo di Liberi e Uguali, per come stabilito in occasione dell’assemblea nazionale del 26 maggio 2018. Con rammarico non possiamo non osservare che lo stesso Pietro Grasso, in una lettera pubblica del 4 novembre 2018, ha negato alla radice la possibilità del congresso ritenendolo «una sorta di asta per il simbolo», rinunciando così nei fatti all’unica vera strada per poter rilanciare Leu.
21. PERCHÉ SERVE UNA COSTITUENTE PER UN NUOVO PARTITO DELLA SINISTRA ITALIANA
Giunti a questo punto, non ci resta, con realismo, che riscontrare una chiara mancanza di disponibilità ad andare avanti.
Attraverso un nuovo processo costituente, aperto e democratico, vogliamo costruire una nuova forza della sinistra italiana e, allo stesso tempo, offrire il nostro contributo per riorganizzare, in modo plurale, il campo dell’alternativa alla destra in Italia e in Europa.
Si tratta di un programma ambizioso da far tremare i polsi, ma siamo convinti che serva una scossa e una riscossa di tutte le energie della sinistra politica e sociale del nostro Paese. Del resto, qualunque «lunga marcia» è sempre cominciata con un piccolo passo nella giusta direzione.
La nuova fase costituente sarà rivolta ai singoli cittadini, alle altre forze politiche e sindacali, ai soggetti sociali, ai movimenti civici e ambientalisti, all’associazionismo laico e cattolico. Non si potrà che partire dalle tante energie che hanno animato l’esperienza di LeU e di Mdp in questi mesi e che continuano a credere nel progetto di una nuova sinistra popolare nel nostro Paese, ma dovremo evidentemente andare oltre noi stessi.
Sull’insieme di questi punti, ovviamente da approfondire e integrare con nuove riflessioni e diversi ambiti d’intervento, desideriamo aprire un confronto libero, aperto e costituente con l’obiettivo di aggregare il maggiore numero di singoli cittadini, attivisti e militanti, di forze sociali e politiche.
A questo nuovo progetto vogliamo dedicare tutte le nostre migliori energie: l’uguaglianza serve per essere più liberi; la libertà è necessaria per essere più uguali; un nuovo pensiero democratico, ecologista e socialista è indispensabile per salvare la società e gli equilibri del pianeta. O la sinistra è questo oppure, semplicemente, non è più: perciò è giunto il tempo di riprendere il cammino.
Allegati: i contributi dei territori alle Tesi
Il documento dell’assemblea provinciale di Bologna
Il documento di Articolo Uno Belgio
Pace e progresso: integrazione alle Tesi di Francesco Adamo (Torino)
Stato ed Enti locali: contributo alle Tesi di Giacomo Galazzo (Pavia)
Perché serve una nuova società della conoscenza. Di Laccetti e Zampella (Napoli)
Contributo alla discussione sulle Tesi di Gabriele Mandelli (Milano)
Un grande piano per la piena e buona occupazione: il contributo del Piemonte
Immigrazione, accoglienza, integrazione, cittadinanza: contributo del Piemonte
Perché serve una nuova società della conoscenza. Carlo Rapetti (Milano)
Scuola: perché è necessario ripartire dalla Costituzione. Salvatore Salzano (Pavia)
Per i diritti di tutt*. Contributo del Piemonte per #Ricostruzione
La sinistra e la sfida dell’immigrazione. Contributo di Napoli per #Ricostruzione