“Piero” e noi all’Atlantico: così è nato un leader. Nello stupore

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Per chi è abituato, come me, a leggere il passato come un fluire di vite e di idee che, nonostante le circolarità, tende sempre verso le stesse domande di senso, parlare del 4 dicembre 2017 è complicato. Dopo decenni di berlusconismo, anni di renzismo e mesi di fibrillazioni leaderistiche, migliaia di persone hanno – stipate in un capannone alla periferia di Roma – vissuto un momento di grazia.  

Non c’è altro modo per descriverlo. Ciascuno si portava dietro il proprio bagaglio di attese e di speranze; i più angosciati dall’imminenza delle elezioni. Gli interrogativi erano molti, palpabili nei silenzi e negli sguardi delle – ordinate – file all’ingresso. E in fila ci si è stati tutti. Da Bersani a Epifani, fino a Mussi e Quaranta: la dirigenza ha fatto la fila coi militanti, coi delegati, con il popolo di invitati e di curiosi alla ricerca di chi potesse dare notizie. Chi sarebbe intervenuto? Grasso aveva sciolto la riserva? Tutti presi da queste domande, dalle scadenze del futuro più prossimo, ben pochi posso dire di esser stati preparati per l’evento cui hanno preso parte: un’anticipazione di quel “fare le cose con metodo, con cura, con attenzione” che sarà la grande novità politica di Pietro Grasso.  

Grasso è intervenuto per ultimo. Più ancora di ciò che ha detto, il vero stupore suscitato in tutti i presenti è legato a ciò che non ha detto, e al non averlo detto. Son stati coloro che sono intervenuti a dirlo, a ringraziarlo per averli invitati. Come, per capire un uomo, basta leggere i titoli nella sua libreria; così negli interventi succedutisi sta tutta la cifra – chiara e discreta – di un leader che l’Italia attendeva da tempo. Come un fiore, che dolcemente si schiude alla propria bellezza, così questi interventi ce li siamo gustati, con la mente e con il cuore.  

Iniziando da Alessio Pascucci, sindaco di Cerveteri, che ha ricordato come l’Italia sia fatta di tanti amministratore locali che davvero si mettono al servizio delle proprie comunità, che iniziano mettendo gli occhi in quelli di coloro che cercano risposte ai propri drammi, alle proprie solitudini. Sindaci che sanno stare sotto la croce su cui la crisi ha inchiodato migliaia di famiglie, di vite, di persone. Sindaci che da quella sofferenza sono mossi alla mobilitazione, creando reti in cui si scambiano migliori pratiche, consigli, informazioni con cui vincere l’inerzia atavica degli apparati amministrativi.  

Abbiamo continuato con l’esperienza dell’Arci, con Francesca Chiavacci che ci ha ricordato che è solo con la cultura che noi potremo costruire – nelle menti e nei cuori – le difese contro le guerre intestine che corrodono il senso di essere umani, e poi la società e il vivere civile. Queste difese si nutrono, ogni giorno, del lavoro di milioni di persone, che con un’azione permanente diffondono esperienze di dialogo e di incontro, trasformano il pregiudizio in giudizio, il sospetto in curiosità, così costruendo una collettività coesa nel dialogo e nella condivisione. 

E poi Simone Siliani, di Banca Etica: se ci si è riusciti con le banche a creare un’alternativa vera, credibile e che funziona, allora non abbiamo ragioni di disperare che in tutta la società si ricostruisca un senso comune; allora è ragionevole la convinzione che “il mondo può essere conosciuto, interpretato, trasformato e messo al servizio dell’uomo”. Gli interventi politici sono stati in tutto tre, brevi. Civati, Fratoianni e Speranza han detto poche parole, ciascuno secondo le proprie sensibilità, eppur tutti riconoscendo che il lavoro comune li aveva sorpresi, sopresi d’esser stati colti impreparati nel riconoscere di sentirsi “fratelli”, affratellati dal progetto comune. A chi, giustamente, evidenzia che il programma è ancora assai perfettibile bisognerebbe allora ricordare che il prodotto è, talvolta, non meno importante del processo. Perché qui il processo ha sortito frutti sbalorditivi.  

A parte questi tre interventi politici, è stata l’Italia a parlare, sempre con brevi cenni di ringraziamento a “Piero”. E’ venuta l’Italia che lavora in fabbrica, a Verona, alla Melegatti, portando la storia del movimento spontaneo di operai, impiegati e dirigenti che – di fronte al rischio di chiusura della fabbrica – si sono alternati per tener vivo il lievito madre, “perché se muore quello non si potrà mai più riaprire”. Poi è intervenuto Gianni Bottalico, l’ex presidente delle Acli, raccontando delle Settimane Sociali e portando l’ottima notizia che c’è tutta un’Italia che lavora a proposte concrete di sviluppo sostenibile, tutto un movimento in piena fase di lievitazione che discute di progresso, che abbatte muri e crea visioni condivise di futuro, futuro buono per tutti. E poi ancora le imprese creative che, in Sicilia (a Favara), con l’arte fanno rigenerazione urbana, danno lavoro ai giovani, ricreano economia e socialità, e con orgoglio danno fiducia, perché a partire da dai territori l’Italia trabocca di “utopie realizzate”.  

A seguire Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa. Lui che ha curato migliaia di vite spezzate, che ha chiuso gli occhi a centinaia di cadaveri, che ha messo le sue mani sulla carne “scuoiata” dei nostri fratelli umani che preferiamo respinti perché “migranti economici”; ebbene lui ci ha ricordato che l’eroismo non è qualcosa da colossal hollywoodiano. Si tratta solo di “fare il proprio dovere”, perché “fare il proprio dovere significa esseri liberi e fare onore all’umanità”, e “portarci in un mondo migliore è compito della politica, della vera Politica che è servizio”.  

Grasso ha concluso l’incontro con un discorso pacato, preciso nell’analisi della realtà, dettagliato nelle priorità: giustizia sociale, centralità della persona umana, coesione nel coltivare una visione del domani che si faccia carico di tutti e sia partecipata da tutti, una nuova alleanza con i corpi intermedi, con le forze sociali, cattoliche e di sinistra, democratiche e progressiste. Ciò che però ha dato la cifra della giornata, e ha aperto lo sguardo sull’avvenire di questo sforzo, è stata la trama dell’evento, questo ricamo mirabile e cosciente di esperienze diverse che, all’unisono, ci parlano di un’Italia che si è già avviata verso quello che Olivetti avrebbe chiamato “il mondo che nasce”. La centralità della società civile, la fiducia palpabile che viene dal far emergere la pasta che è già lievitata, i buoni esempi che ci dimostrano che – seppur ignorati dai media – non eravamo soli nel lottare – un po’ nelle tenebre – in questi anni bui d’irresponsabilità verso i valori radicali del Centro-Sinistra.  

Grasso ha stupito, ha regalato un assaggio di quell’autentico stupore che – come di fronte a un tramonto o a una vetta innevata – ti fa trasalire, grato di esserci stato, grato per tutto quel Bene che lievitava in così tanti modi e posti e che si materializzava davanti ai nostro occhi. Quasi ci si era rassegnati all’idea che non ci fosse più la bellezza della bontà, che al massimo si potesse sperare nel nulla, nella Leopolda. E’ stato elettrizzante essere testimoni di una comunità, di una vera comunità che si abbassa umilmente nel servizio ai valori comuni, che – come nel crogiolo dell’orafo – la Storia ha come preparato per pezzi, e che ora fonde (con la metodica e discreta regia di Grasso) in un unico affresco.  

A noi ora operare perché la pittura non si secchi, perchè il lievito madre sia tenuto vivo col lavoro, scaldato dalla passione, inumidito come gli occhi di chi soffre insieme agli altri, e con loro prende parte a una battaglia antica e sempre attuale: quella di essere liberi, uguali, umani.  

Gabriele D'amico

Torinese, avvocato, appassionato di diritto ed economia della cultura, dottorando fra Berlino e Gerusalemme in diritti umani e diversità culturale. Consapevolmente olivettiano, credo nella capacità umana di superare la gregarietà del sistema limbico e ragionevolmente spero in un futuro di sviluppo umano integrale.