La grande illusione: colmare con la comunicazione il vuoto della politica

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Una legge elettorale non è solo una tecnica. Esprime un’idea di partecipazione, una visione della democrazia. Il cosiddetto Rosatellum bis non fa eccezione. I suoi marchingegni sottintendono una separazione tra politica e opinione pubblica, traducendo in norma una concezione radicatasi anche a sinistra. Quella che davanti alla crisi della rappresentanza pensa a come trarne profitto invece di contrastarla, credendo di poterla gestire con i media.

In questi anni, infatti, è stata coltivata una grande illusione: che la comunicazione potesse colmare la voragine tra eletti ed elettori. Di più: che servisse a quello. Si è puntato sui leader con favella, sulla gestione complice dei mezzi d’informazione, su un messaggio cosmetico e paternalistico. Dove non c’era mandato, poteva esserci intrattenimento. Dove sbiadiva il corpo elettorale, bastava l’audience. La legittimità stava nell’applauso.

Oggi si raccolgono i cocci, e ci si potrebbe chiedere come sia stato possibile crederci. Nel nostro paese è dura a morire una concezione dilettantesca che vede nella comunicazione non l’arte di spiegare una verità ma una scienza dell’inganno, una sorta di maionese da spalmare sugli arrosti bruciati delle ratio più inconfessabili. Un’illusione, anche questa. Alla fine la realtà riprende inesorabile il suo posto. Sempre. Del resto, se bastasse la propaganda, nessun regime cadrebbe mai. Non a caso Vaclav Havel scrisse che, dove la menzogna impera, la verità assume “il ruolo di forza politica”.

L’Italia non è la Cecoslovacchia del 1978, tuttavia oggi la separazione tra comunicazione e realtà è un dato di fatto. Non a caso le recenti campagne pubblicitarie della politica italiana sono desolanti soliloqui, concepite come sono nel silenzio democratico. Tutti involontari racconti del vuoto popolare.

Per apprezzare le differenze basta guardare agli anni settanta. Epoca di partecipazione di massa, e di slogan e idee nate da uno scambio, da una profonda intimità con il pezzo di società al quale ci si rivolgeva. Campagne nelle quali la presenza ideale del proprio elettorato era tangibile.

 

Non si tratta certo di condividerne il contenuto politico a distanza di decenni, ma di riconoscervi l’espressione di un dialogo autentico tra partiti e cittadini. Si parlava al proprio popolo utilizzando valori comuni, dandogli del tu senza che suonasse ruffiano o finto: “Lotta col voto”, “Parliamo della tua famiglia”. Voci di un’epoca, nelle quali però va colto un suggerimento per il nostro presente: se non identifichi un tuo elettorato, il messaggio perde rilevanza. Se parli a nessuno, dici il nulla.

Ma l’errore più grande sarebbe un altro: considerare la partecipazione popolare come un fatto storico, un evento del passato. Oggi nuove e antiche democrazie in tutto il mondo dimostrano semmai il contrario, vivificando i propri valori attraverso un uso dei media opposto a quello nostrano. Solo un esempio tra i tanti: è accaduto in Tunisia nel 2011, a pochi giorni dal primo voto democratico, dopo la caduta di Ben Ali. Nel centro di Tunisi, una mattina, è stato affisso un gigantesco ritratto dell’ex dittatore. Impettito, sorridente. Come se niente fosse mai accaduto.

Dapprima stupiti, poi indignati, i passanti decidono di tirarlo giù scoprendo un messaggio che dice: “Attenti, la dittatura può tornare. Andate al voto”. La percentuale dei votanti superò l’ottanta per cento. Filmato e diffuso in tutto il paese a velocità social, il “Ritorno di Ben Ali” era diventato il più coinvolgente degli appelli. Oltre che un perfetto congegno democratico, nel quale gli elettori strappano il velo della propaganda e riconquistano la realtà.

Giuseppe Mazza

Copywriter, dopo dieci anni in Saatchi&Saatchi e Lowe Pirella ha fondato Tita, la sua agenzia. Dirige Bill Magazine, la rivista italiana di studi sul linguaggio pubblicitario. Ha pubblicato "Bernbach pubblicitario umanista" e "Cose Vere Scritte Bene" (Franco Angeli). Ha scritto per Cuore, Comix, Smemoranda, Il Venerdì.