Oltre il leghismo e il neo borbonismo: una nuova politica di sinistra per il Sud

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Il cosiddetto pensiero unico, ossia una versione del liberalismo che potremmo definire caricaturale se non avesse avuto esiti drammatici, ha sulla coscienza molte vittime. Fra queste anche la nobile preoccupazione per la questione meridionale, scomparsa dall’agenda politica dei governi italiani da almeno trent’ anni.

Già sul finire della cosiddetta prima Repubblica, ai tempi dell’ubriacatura yuppie degli anni Ottanta, si poteva dire terminata la stagione classica dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno, con la soppressione della Cassa per il Mezzogiorno prima e dell’Agenzia dopo. Durante gli anni della seconda Repubblica la questione meridionale è stata non solo accantonata, ma è diventata uno dei bersagli polemici della Lega Nord adottato, sostanzialmente, da quasi tutte le altre forze politiche, che si accodavano alle ragioni leghiste condivise da un’opinione pubblica diffusa, che identificava l’intera questione meridionale come una questione di sprechi e malaffare. Ciò condusse all’equiparazione, errata quanto offensiva, della questione meridionale con la questione morale.

La sinistra italiana che si va rifondando ha la possibilità, e il dovere, di riproporre il tema con generosità e rigore, inserendolo coerentemente nel nuovo quadro tracciato in questi mesi e nell’orizzonte più ampio di una pressante richiesta di giustizia sociale. Sarebbe pericoloso lasciare ad una destra illiberale quanto opportunista la bandiera della protezione sociale di una grande area europea.

E’ ora che il paese metta alle spalle polemiche e discussioni che hanno finito con lo stravolgere l’intero impianto della questione, trasferendola sul terreno sdrucciolevole del campanilismo, delle differenze antropologiche e del razzismo. Guai a concepire un nuovo meridionalismo come forma di rivincita nei confronti del Nord d’Italia, contrapponendo una forma di rinato neo borbonismo al disprezzo leghista come è accaduto fino ad ora.

Oggi si comincia faticosamente a realizzare che soltanto a partire dallo sviluppo dell’intero paese è possibile immaginare uno sviluppo dell’Italia nel contesto europeo. Di fronte all’insorgere di una questione europea e alla difficoltà di identificare un ruolo e una funzione per l’Italia, bisogna convincersi che l’Italia non si salva se non si salva il Sud d’Italia, come bisognerà convincere l’Europa che l’Europa stessa non si salva se non si salva l’Italia.

Per delineare una nuova prospettiva dalla quale affrontare le problematiche del Mezzogiorno, bisogna innanzitutto prendere piena coscienza degli errori commessi. Il primo è stato quello di cercare soluzioni parziali, prive di una visione sistemica e prospettica. I fatti hanno mostrato che lo sviluppo del Nord senza lo sviluppo del Sud era speranza destinata a tramutarsi in delusione. Secondo grave errore è stato quello di concepire una forma di federalismo che si è tramutata, in realtà, in un regionalismo pasticciato e confuso. Ci riferiamo alla cosiddetta riforma del Titolo V.

Il decentramento regionalistico si è rivelato un fattore di grave crisi per il paese. Non solo non ha creato nuovo sviluppo per le regioni, ma ha indebolito l’intero assetto giuridico istituzionale del paese ed ha profondamente aggravato la crisi, già forte, della burocrazia. Si è rivelato come un fattore di ulteriore spreco del quale solo da poco ci si sta cercando di porre rimedio. Il terzo è stato quello di pensare che il Sud potesse svilupparsi soltanto attraverso l’utilizzo dei fondi strutturali aggiuntivi. I fondi europei. Il meccanismo burocratico con il quale questo tipo di intervento è stato pensato si è rilevato un meccanismo infernale. Innanzitutto questi fondi, di fatto, non sono stati aggiuntivi (come è nello spirito dell’intervento) ma hanno finito col rivelarsi sostitutivi dell’intervento ordinario. In ultimo la credenza che bastasse una politica di sgravi fiscali, in alternativa a grandi investimenti per invertire la rotta, errore reiterato dai governi di Renzi e di Gentiloni.

Naturalmente ripensare un nuovo meridionalismo è oggi molto più difficile di un tempo. L’intervento del pubblico ha mostrato limiti sul terreno del clientelismo politico, dello sperpero di risorse pubbliche, dell’incapacità di visione complessa. Ma, soprattutto, sono venute a mancare quelle risorse che garantivano, pur fra i limiti segnalati, l’intervento pubblico a sostegno dello sviluppo e dell’occupazione.

Si abbandonino dunque, le lusinghe di un liberismo estremizzato secondo il quale, lasciando a se stesse le popolazioni meridionali le si metterebbe in condizione di uscire autonomamente da un’arretratezza che, non lo si dimentichi, è strutturale. Si abbandoni la fede cieca nelle politiche di incentivazione fiscale che, in tanti anni, non hanno dato i frutti sperati perché, da sole, non avrebbero potuto darli.

E’ necessario, al contrario, individuare nuove strategie di intervento, molto selettive ma inserite in un’ottica sistemica e in una prospettiva di lunga durata, oltre che economicamente sostenibili. E’ urgente investire nella logistica e nelle infrastrutture materiali e immateriali in un ampio orizzonte economico ed etico-politico, ossia in un quadro ragionato e finalizzato di interventi. Una opportunità, ad esempio, potrebbe essere rappresentata dal consentire al Meridione di accogliere le energie provenienti dai mercati orientali, dalla Cina all’India, che potrebbero trovare nei porti, nelle infrastrutture e nei sistemi integrati di connessione del Sud d’Italia, una formidabile base nel Mediterraneo. Ancora, investire nelle energie rinnovabili, come dire in un settore che garantirebbe investimenti duraturi, risparmi collettivi di lunga durata, miglioramento della qualità della vita e dell’ambiente. Investire, infine, nel cosiddetto capitale umano, ossia nel sistema dell’istruzione e della formazione, investimento di lungo termine ma necessario per assicurare uno sviluppo costante e sicuro, al riparo, per quello che è possibile, dalle crisi congiunturali. In un tale orizzonte, sembra necessario rivedere le modalità di utilizzo dei fondi strutturali, rinegoziando le regole attuali con l’Unione europea.

Un nuovo impegno della sinistra oltre il leghismo nordista e il neo borbonismo.

Ernesto Paolozzi

Insegna Storia della filosofia contemporanea. E' stato direttore scientifico della Fondazione "Luigi Einaudi" di Roma. Autore di numerosi volumi, ha collaborato e collabora con varie riviste e quotidiani, fra i quali la rivista "Complessità", di ispirazione moriniana, e "la Repubblica-Napoli". E' interprete del pensiero crociano e studioso del liberalismo. A Napoli è stato fra i fondatori dell'Ulivo e del Partito democratico.