La crisi della sinistra è la rottamazione di una cultura politica

| L_Antonio

A distanza di anni possiamo dirlo. La vera ‘cesura’, nella più recente storia patria è stata la fine dei partiti. E, in particolare, dei partiti di massa, popolari: le ‘colonne’ della Prima Repubblica. Con la morte del PCI (insistiamo su questa perché ci ha riguardato molto da vicino) non è stata solo ‘smontata’ l’impalcatura organizzativa e ‘logistica’ di quell’organizzazione. Perché, se così fosse, il dibattito sulla ‘forma-partito’ occuperebbe per intero e senza residui il nostro orizzonte teorico. Nel triennio 1989-1991 (in anticipo rispetto a Tangentopoli quindi, in una specie di suicidio!) è stata, in realtà, certificata la fine della cultura politica che sostanziava l’esistenza di quel partito e che la ispirava. E con essa l’idea (e la pratica) della mediazione, dell’unità popolare e nazionale, della centralità del Parlamento, dei destini collettivi e del ‘pubblico’ come effettivo spazio di interesse. Una cultura politica che era sfociata, inevitabilmente, come il fiume verso il mare, nel ‘compromesso storico’, nella proposta di unità delle grandi forze popolari, di reciproca legittimazione, e nella convinzione che fosse utile saldare il campo e regolare il conflitto politico piuttosto che farlo esplodere e determinare spaccature e tagli netti in un Paese già afflitto da una crisi incipiente e dal terrorismo. Berlinguer ebbe un interlocutore importante, Aldo Moro, che intuì il medesimo pericolo e immaginò una soluzione simile alla sua. Le radici dei due partiti, d’altronde, erano tutte dentro la storia della Repubblica, del popolo italiano, della sua concretezza quotidiana.

Con la frettolosa fine della storia del PCI, tutta la cultura politica di questo partito fu dismessa e fu come ‘sversata’ via. Nel sollievo degli esponenti azionisti, liberali, socialisti, accomunati dall’idea che il compromesso storico fosse una specie di regime, che l’individuo e l’autoaffermazione di sé venissero ‘modernamente’ prima rispetto ai destini collettivi, che la libertà andasse declinata in termini individuali, di ‘liberazione’ delle proprie prerogative e dei propri desideri e piaceri personali, spesso indotti. Il ‘partito di Repubblica’ fu (è ancora) sostanzialmente questo. La china postcomunista divenne una frana culturale per chi proveniva da quella tradizione, accerchiata e sconfitta dalla convinzione e dalle pratiche che anteponevano i ‘fronti’, i ‘poli’, le identità in astratto, gli individui ‘desideranti’, lo scontro maggioritario e la disintermediazione, al lavoro incessante dei corpi intermedi e di massa che, nelle istituzioni e nel Paese, costruivano ‘ponti’ in un clima politico che restava comunque battagliero, tutt’altro che assopito in termini di regime. Con la Prima Repubblica moriva anche la cultura politica comunista (italiana), prevalentemente orientata alla ‘tenuta’ generale, come si diceva, all’unità di popolo e della nazione, all’idea che il Paese fosse un grande spazio collettivo e dovesse rispondere compatto alla crisi e a chi minacciava democrazia e libertà, e non dovesse essere il ‘recinto’, lo spazio vuoto di tanti individui molecolari, i cui conflitti erano in nome dei beni di consumi, dei diritti astratti, di una promozione personale, di un lavoro redditizio, di un riconoscimento sociale delle proprie prerogative sempre e comunque ‘giuste’.

Dopo quasi trent’anni, la sinistra è oggi una specie di deserto. Uno spazio liscio dove individui e gruppi si muovono cinicamente, come in un raid, come nelle incursioni. Dove quei pochi esponenti che hanno ancora memoria di quella cultura antica sono trattati da ‘bolliti’, da ‘dinosauri’ e andrebbero perciò pensionati o nella peggiore delle ipotesi ‘rottamati’. Un Paese dove le risposte della sinistra sono o ‘entriste’ (ricordate il mito della stanza dei bottoni dei socialisti riformisti al tempo del primo centrosinistra?), o sono ‘massimaliste’ e identitarie, oppure azioniste (individuo e diritti su tutto), cosmopolite (siamo cittadini del mondo, non abbiamo radici), radicali (alla critica non segue mai una proposta di governo praticabile, e tutte le vacche diventano grigie) se non settarie. Ci manca come il pane la cultura della mediazione, dell’unità, del dialogo, del conflitto ravvicinato e anche duro, ma in uno spazio condiviso e nella reciproca legittimazione. Non ci meravigliamo che due esponenti simbolo di quella cultura politica (Bersani e D’Alema) siano bersagliati spesso da critiche pregiudiziali, talvolta odiose e personali. L’Italia è un Paese che non vedrà futuro se non ricostruirà le ragioni della mediazione, se non ritesserà le fila istituzionali della politica, se non ridarà spazio e verve al Parlamento e a partiti nazionali, rappresentativi, se non penserà in termini di unità e se, invece, continuerà ad affidarsi alle regole e alle leggi dell’affermazione personale e non a quelle del riscatto sociale, collettivo, dei lavoratori, dei ceti produttivi, delle donne, dei giovani, degli ultimi, dei marginali, dei perdenti. Mettendo al primo posto, finalmente, il Paese intero non solo taluni lobby o gruppi di privilegiati.

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Alfredo Morganti Giorgio Piccarreta

Alfredo Morganti è da sempre appassionato di politica e di sinistra. Ama scrivere. Suona la batteria. Da qualche tempo si è scoperto poeta. Giorgio Piccarreta è funzionario del Comune di Roma. Coltiva orti, letture, l’amore e, fin da piccolo, la passione per la politica. Di sinistra.