Si è persa la comunità perché si è persa la fede. Una questione di sinistra

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Dai giorni dell’Assemblea Nazionale che ha decretato la cosiddetta “scissione” in casa Pd, la parola “comunità” è stata utilizzata con una frequenza crescente. In piena Assemblea Gianni Cuperlo ammetteva – ai microfoni di Lucia Annunziata – che il problema di fondo del Pd è quello della “comunità politica” che rischia di perdere “le ragioni dello stare insieme”, di smarrirsi (prim’ancora che come iscritti, per quanto illustri) come “comunità di senso, di destino”. Pochi giorni dopo Roberto Speranza a SkyTg24 ricordava come Veltroni e Bersani si dimisero da segretari “per salvare la comunità”, mentre alla presentazione del nuovo Movimento sottolineava che l’articolo 1 della Costituzione è “il tratto identitario più bello della nostra comunità”. Andrea Orlando, presentando a Roma la sua candidatura, criticava il distacco californiano di Renzi, accusato di comportarsi “come se quella non fosse la comunità che lui ha diretto fino a qualche settimana prima”. Il cerchio sembra essersi chiuso al Lingotto, dove Matteo Renzi ha dichiarato che il Pd è una “comunità” che “non si rompe”, nonostante i tentativi di distruggerla; una comunità che “c’era prima e ci sarà dopo di noi e ora cammina con noi”. Renzi, peraltro, si era già richiamato alla “comunità” nel dicembre 2016 quando, in sede di Assemblea nazionale Pd, dichiarava che il “rischio di populismo non è un problema di casta ma l’assenza di un senso di comunità”. Anche il nuovo delfino del PD, il Ministro alle Politiche Agricole Maurizio Martina, non s’è lasciato scappare l’occasione di spiegare i problemi del partito e del paese in termini di “comunità”. Nella sua lettera aperta al direttore di Repubblica, Martina sostiene che di fronte al vero problema (che “le forme della rappresentanza, per come le abbiamo intese, non funzionano più”), l’unica soluzione è “fare comunità”.

Questa parola, in ultima analisi, riassume due questioni chiave, per il centrosinistra e per il paese. Da un lato la questione dell’unità nella diversità. Un partito sano, come una democrazia robusta, dev’essere in grado di promuovere la diversità di opinioni e d’interpretazioni, sapendo però ricondurle ad unità di visione e d’azione. Guardando al centrosinistra, sembrano ancora attualissime le parole di Nilde Iotti che, nella sua ultima intervista, alla domanda se rimpiangesse qualcosa del passato, rispondeva: “Una sola cosa, forse: il fatto che in un passato che non è solo quello lontanissimo, ma anche quello più recente, noi abbiamo avuto un partito che discuteva con grande libertà, tutte le questioni. Forse perché eravamo uniti, sostanzialmente. Adesso è difficile discutere all’interno del partito; forse perché siamo più divisi e temiamo che quando si apre una questione poi non si possa trovare il punto di unità con gli altri”.

La seconda questione chiave è quella del patrimonio intangibile di una comunità politica, di quel carattere anche “sentimentale” che un partito deve avere per conservare, riprendendo le parole di Sabrina Ferilli, “la fragranza, la voglia, la passione” che si fonda sulla convinzione che la sinistra sia “vitale per i popoli, per la coscienza e per la sopravvivenza degli stessi”. Il monito di Gramsci affinché non manchi mai “il brivido della passione” è questo. Lo stesso tema è stato ripreso da Romano Prodi, che già nel 2013 sottolineava il valore essenziale del “costruire l’entusiasmo” facendo “mosse di contenuto”, un entusiasmo che non risolve da sé i problemi ma crea “una forza per superarli”.

Come la comunità nazionale non si riduce ai cittadini di oggi ma riannoda le generazioni in un senso di appartenenza che attraversa la storia, così una formazione politica è una comunità se, rispetto a una certa tradizione politica e ideale, offre novità nella continuità, aggiornamento nella fedeltà a una visione sociale e politica che si vuole realizzare. La “radice dell’unità” di una comunità politica (per riprendere il titolo di una meditazione di papa Francesco) sta dunque nella continua riscoperta delle proprie radici storiche e ideali, che possono essere criticate e devono anche poter essere superate, ma dalle quali una comunità non può prescindere. Non è un caso che Bersani interpreti Articolo 1 proprio in termini di un “ritornare ai fondamentali”.

Da questa prospettiva la “comunità” diventa il terreno di scontro fra coloro che ritengono che il renzismo non sia di sinistra (che dunque sia un’eresia, un distacco dai valori che creano e garantiscono la continuità, una mutazione genetica che sradica la comunità dalle sue visione e missione fondative) e l’ex premier, che dà a intendere che la sua comunità, quella che “non si rompe”, è l’unico vero erede politico del progetto dell’Ulivo, e che dunque sono gli altri ad essersene andati, e non i renziani ad aver inoculato nella “comunità PD” un morbo – il renzismo – incompatibile col suo DNA di valori. Sulla questione di comunità si gioca qualcosa di molto più prezioso dell’elezione di un segretario di partito: l’identità del centrosinistra e il senso di appartenenza a un “noi” che sappia definirsi non tanto in opposizione ad un “loro”, quanto in funzione dell’Italia e dell’Europa che si vogliono costruire e dei mezzi che si ritengono più adatti a realizzare questa visione. La questione non è semplice ed è simile a quella della democrazia: mancando una definizione generalmente accettata del termine, parlare di “comunità” rischia di tradursi in uno slogan carente di senso profondo, in un pensiero al meglio superficiale.

In coerenza con le radici ideali dell’Ulivo, bisogna quindi cercare definizioni che, radicate nel pensiero latamente marxista ed in quello cristiano, possano aiutare a comprendere la vera natura della “comunità”. Io proporrei due autori: Martin Buber (la cui visione è definita un socialismo comunitarista) ed Edith Stein (che, conosciuta dal più vasto pubblico come Santa Teresa Benedetta della Croce – Compatrona d’Europa – del concetto di comunità si occupò in termini filosofici, prima di convertirsi al cattolicesimo). Il tema non può però essere trattato senza almeno menzionare il pensiero di Adriano Olivetti, e la straordinaria bibliografia rappresentata dalla sua biblioteca e dalle sue edizioni. Nel pensiero della Stein, una comunità si differenzia da un’associazione perché il suo baricentro, i valori che ne costituiscono la spina dorsale e che tratteggiano la visione di futuro che una certa collettività si sente chiamata a realizzare, è esterno a sé. In altre parole, un gruppo può legittimamente aspirare ad autoriprodursi, e può fondarsi su di un’opinione, su di una certa visione del mondo concepita come parziale e non universalizzabile, buona per i propri aderenti (o potenziali tali) ma non considerabile come condivisibile da tutti. Una comunità, al contrario, si fonda su valori che non sono il frutto del “suo fare o del suo inventare”, su di una realtà etica fondamentale che precede la comunità e attorno alla quale questa si congrega (questo è peraltro il punto fondamentale della concezione ecclesiale della Compagnia Sempre Riformanda). In questo senso c’è assonanza con Martin Buber, che parla dei valori (nel loro fondamento oggettivo e in questo diversi dalla cultura) come del “cuore vivo – living center – della comunità”. Proprio riconoscendo che questi valori possono essere oggetto di interpretazioni contingentemente difformi (che però ultimamente convergeranno ad unità, in ragione del carattere unico del fondamento di verità da cui discendono), Buber propone una visione utopica di (migliore) società possibile in termini di “comunità di comunità”.

La comunità è quindi sempre un soggetto dinamico; un soggetto collettivo che, nel pensiero della Stein, lega in modo empatico le esperienze individuali dei singoli in un’esperienza comune che arricchisce – senza mortificarli – i vissuti personali. Questo dinamismo è la sua “attività comunitaria”, che Olivetti definiva come l’“azione in cui ciascuno nel proprio ambito e nella propria funzione, lavora a un fine comune e coordinato”, azione che si estende anche alla ricerca del fine e del senso del cammino comune. La comunità cerca una visione di bene generale. In questa ricerca i suoi membri si riconoscono leggendo – gli uni negli occhi degli altri – quel progetto per l’uomo che ispira a ciascuno un abbandono dei propri egoismi, così costruendo una “comunità di senso e di destino” che opera come un “cuore solo e una anima sola” (At, 2, 42-48).

Ciò che unisce la comunità, e la differenzia dal gruppo o dall’associazione, non sono le parole con cui i suoi membri si dicono eredi di una certa visione, ma i comportamenti con i quali praticano un’esperienza di senso che li anticipa e li precede. La motivazione intrinseca della comunità (per citare Luigino Bruni) è la fede. Questo termine non è da intendersi in termini dogmatici. E’ indicativo che il documentario su Nilde Iotti prodotto nel 2009 dal Gruppo Deputati Pd si apra proprio con un’intervista a un militante, che sottolinea come “all’epoca, oltre ad una moralità che purtroppo non c’è più in molti politici, c’era una fede, ci credevano”. Lo stesso termine è usato, altrettanto laicamente, nel Preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, ove “i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato la loro fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana”. La fede è l’intima convinzione del fondamento oggettivo dei valori che definiscono il DNA e la missione di una certa comunità. Essa non ne informa solamente i codici etici o gli statuti. Se è vero che “la fede senza le opere è morta” (Gc 2, 26), quando essa svanisce la comunità (che su di essa si fondava, sia cristiana o marxista) si riduce a un gruppo, a un esercito di terracotta, a strutture private di forma vitale e di capacità di rinnovamento.

Riportando questa visione nel concreto del dibattito politico, il modo in cui le formazioni politiche agiscono e i contenuti dei loro programmi sono la cartina di tornasole per capire a quale comunità appartengono o se, persa la propria stella polare e svanito così l’ideale di società migliore che erano chiamate a realizzare, si sono ridotte a imbarcazioni condannate al piccolo cabotaggio, e ultimamente alla deriva. Come una barca va dove la conducono i propri timonieri, così si verifica la sostanza comunitaria di una collettività dal comportamento dei propri organi di indirizzo. Se questi perdono la bussola, lo si vedrà nella loro azione e nel modo in cui avranno paura di coinvolgere e creare una vera partecipazione all’interno della “comunità”. Chi ha fede, sia essa marxista o cristiana, non teme il confronto, non rifugge la discussione, ma anzi cerca ogni occasione possibile per condividere un patrimonio ideale, una visione coerentemente vissuta e avvertita non come propria, ma come bene comune al quale conquistare convincentemente gli altri. Quando invece il senso – come chiarezza della meta comune – viene a mancare, quando la comunità di destino si estingue e alla vocazione di servizio a un progetto più grande di sé si sostituisce l’autoreferenzialità, la comunità da dinamica viva diventa acqua stagnante, che in breve è destinata ad imputridire come un pianta privata delle radici. Il fine comune, la meta, non può essere il frutto di una scelta di una qualche maggioranza contingente.

La comunità è quindi sempre una dinamica, un dialogo con i valori che, nel loro essere avvertiti come indisponibili (perché un gruppo può camminare verso il proprio bene esclusivo, ma una comunità può solo dirigersi verso il vero Bene che è tale per tutti, sia esso l’eskaton o il trionfo del proletariato), sono una “provocazione permanente a lasciare gli antichi bivacchi attorno a cui il racconto delle gesta dei padri è gratificante, il vivere di rendita diventa quasi un comando e nelle pupille davanti al fuoco c’è solo posto per i riverberi del passato”. Cito qui un famoso discorso del 1990 di don Tonino Bello (La Bisaccia del Cercatore), a seguito del quale Nilde Iotti (intervenendo subito dopo il Vescovo di Molfetta) disse: “Anche se egli si riferiva a cosa strettamente legate alla tradizione religiosa, ai testi sacri, io non sentivo niente che non potessi condividere, fino in fondo. Tutte le cose che ha usato mi pareva che potessero essere un patrimonio comune di tutti coloro che vogliono costruire l’Europa, la casa comune”.

Così intesa la comunità è un concetto esigente, che per questo deve essere usato con parsimonia, un concetto che – quando ben compreso – porta a diffidare da chi lo usa con faciloneria. Come il lupo si traveste da agnello, così sempre il gruppo cerca di spacciarsi per comunità, sempre l’egoista cerca di piazzare il proprio interesse come bene comune, sempre l’oligarchia cerca una legittimazione formalmente democratica. Senza una vera dimensione di comunità, la politica semplicemente non è più tale e la democrazia scivola verso l’oligarchia, ovvero il trionfo dei gruppi di interesse parziale o, come ben chiarito da Luigino Bruni, di “club nei quali si coopera all’interno, ma non all’esterno”. Come sottolineato da Zagrebelsky, con i tassi crescenti di astensionismo la democrazia sta scivolando sempre più velocemente verso l’oligarchia; la comunità svanisce e lascia spazio alla lotta fra bande, associazioni o club. La comunità o è fedele ai propri valori e per questo aperta ad essere una comunità di comunità, oppure non è. La comunità diventa quindi un esame, come il crogiuolo dell’orafo nel quale fondere l’ideologia e le azioni e vedere se c’è veramente una fede, una visione, un’immagine di società bella e giusta capace di motivare ciascuno all’azione, di attirare consenso e di generare vera partecipazione. Da questa prospettiva la maturità del centrosinistra italiano sarà valutata in un esame di comunità.

Gabriele D'amico

Torinese, avvocato, appassionato di diritto ed economia della cultura, dottorando fra Berlino e Gerusalemme in diritti umani e diversità culturale. Consapevolmente olivettiano, credo nella capacità umana di superare la gregarietà del sistema limbico e ragionevolmente spero in un futuro di sviluppo umano integrale.