Cattolici democratici e Articolo 1: tra errori e discontinuità, una nuova strada

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Autocritica e discontinuità. La nuova sinistra di governo, una sinistra culturalmente plurale di cui l’Italia ha urgente bisogno dopo le devastazioni dell’incolto renzismo, non può che partire da questo binomio. In tal senso appaiono incoraggianti sia i primi passi di Articolo Uno-Mdp, che ha gettato le sue Fondamenta nei giorni scorsi a Milano, sia quel che si muove, sia pure sotto traccia, nel variegato mondo del cattolicesimo democratico e sociale, che della nuova sinistra dovrà essere una componente fondamentale.

Vorrei partire da quest’ultimo, che dopo i fasti di un tempo, dalla Costituente all’Ulivo, sta vivendo una situazione di eclissi, anche se negli ultimi mesi si sono levate diverse voci a chiedere che si dia vita a un laboratorio di idee che rinnovi e alimenti al servizio della sinistra, suo naturale luogo, questa grande tradizione culturale, storicamente capace di incidere nella storia italiana al di là della sua consistenza numerica.

Il 20 maggio scorso si è svolto a Parma un convegno di grande interesse intitolato “I cattolici democratici nella storia e nel futuro della Repubblica”, organizzato dalla rete C3dem e dal circolo “Il Borgo”, al quale hanno preso parte tra gli altri lo storico Guido Formigoni, autore di una ricca biografia di Aldo Moro, e due importanti esponenti cattolico-democratici, Pierluigi Castagnetti e Rosy Bindi. Mi pare di poter dire che quel binomio autocritica/discontinuità, sia stato una sorta di filo rosso del convegno.

Per Formigoni il cattolicesimo democratico potrà invertire la condizione di marginalizzazione nella quale è precipitato se riuscirà a cogliere la straordinaria opportunità del magistero di papa Francesco, portando il suo stimolo nella storia del nostro tempo. A cominciare da una netta inversione di rotta rispetto alla subalternità alla cultura politica liberista dominante che in questi ultimi anni è stata la caratteristica di tutta la sinistra sul piano economico e sociale. Anche Rosy Bindi ha parlato di subalternità al pensiero dominante in materia di lavoro e di disuguaglianze per assenza di progettualità, e ha imputato ai cattolici democratici “la mancanza di coraggio che avremmo dovuto avere, non tra noi, ma in modo esplicito e netto” all’interno del movimento cattolico negli anni del berlusconismo e  della egemonia ruiniana sulla Chiesa italiana. Castagnetti a sua volta ha definito inaccettabile per i cattolici democratici la proposta populista, ma ha ammesso che “anche noi siamo stati troppo elitari”. Come dire: siamo apparsi più amici delle banche che della “povera gente” di lapiriana memoria.

Analoghe posizioni autocritiche, che vanno nel senso di una salutare discontinuità, sono emerse in Articolo Uno. Le tesi politico-programmatiche assemblate da Vincenzo Visco in vista di “Fondamenta” sono emblematiche al riguardo. E non riesco proprio a capire come il presidente di Libertà e Giustizia, Tomaso Montanari, abbia potuto bollare come centrismo neoblairiano la strategia politica di Articolo Uno. Forse andava di fretta. “La gestione del potere fine a se stessa va abbandonata, così come vanno ripensati gli orientamenti strategici moderati e centristi che spesso hanno ispirato le forze di sinistra negli ultimi decenni; il riferimento è alla Terza via di Blair […] che si è trasformata progressivamente in conservazione, subalternità culturale, opportunismo. Nella situazione attuale pensare al recupero di un blairismo post mortem appare quanto meno anacronistico”. “La sinistra assiste inconsapevole e disattenta all’enorme aumento delle diseguaglianze senza neanche rendersi conto del fatto che esso è il prodotto inevitabile del capitalismo liberista che si è affermato nel mondo e che è del tutto insensibile ai diritti dei lavoratori e alle loro condizioni di vita”. Sono parole del “centrista blairiano” Visco, che nelle tesi di Articolo Uno tocca anche un altro punto importante della involuzione della sinistra, che ha contribuito al suo indebolimento a favore dei cosiddetti populismi: la sobrietà dei comportamenti e degli stili di vita che gli inventori e sostenitori della Terza Via, i Clinton, Blair, Schroeder (li cita uno per uno) hanno disatteso, “monetizzando la popolarità e le relazioni acquisite grazie alle cariche pubbliche da essi ricoperte”. Il coinvolgimento poi dei partiti di sinistra “in episodi di corruzione o comunque di opacità sul piano morale” è stato un fattore decisivo nella perdita del consenso perché “la questione morale rimane un elemento identitario irrinunciabile della sinistra”. E’ l’abc per poter sfidare credibilmente in campo aperto i 5 Stelle, come indica Pierluigi Bersani. Doveva dire altro, Visco, per marcare la discontinuità con il recente passato? Onestamente non credo.  

A sua volta Roberto Speranza, in una intervista a “Il Fatto”, si è espresso in modo autocritico sul voto favorevole del Pd, nel 2012, alla introduzione dell’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione, primo sfregio alla Carta del ’47: “Fa parte degli errori di lettura del centrosinistra negli ultimi venti anni. Non abbiamo saputo prevedere i guasti della globalizzazione, anzi siamo apparsi come quelli che stavano dalla parte di chi ha vinto”.

Non ho ancora letto “Il piano inclinato” di Romano Prodi, ma c’è da credere, stando a quanto si legge, che il motivo di fondo del libro del fondatore dell’Ulivo sia anch’esso autocritico e prefiguri la necessità di una nuova sinistra di governo senza ambiguità. Ci siamo dimenticati dell’uguaglianza, dice Prodi, ma senza eguaglianza la stessa crescita rallenta e le crepe della coesione sociale alimentano i populismi mettendo a rischio la democrazia. Qualche mese fa, del resto, nel corso di un incontro a Bologna con il Premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, Prodi era stato netto: “Quarant’anni fa scrissi che c’era una differenza di salario di 30 volte tra un direttore e un operaio e dissi che era troppo. Ricevetti migliaia di lettere di approvazione. Oggi la differenza è di 300 volte, ma non frega niente a nessuno”. Nelle tesi di Visco il dato è ancor più catastrofico: 30 a 1 negli anni Settanta, 350/400 a 1 oggi.

Sono queste le basi da cui ripartire per federare la nuova sinistra, lasciandoci definitivamente alle spalle il giglio magico renziano che guarda naturaliter a destra e si sta dimostrando per quel che è: un grave incidente di percorso dovuto anche a nostri errori e contraddizioni, acuiti se non addirittura indotti dal precedente inquilino del Quirinale. Il tempo è scaduto, gli inutili appelli rischiano di apparire puro tatticismo, il nostro popolo non li capisce.

Paolo Palma

Giornalista parlamentare e storico. È stato deputato dell’Ulivo e capo della segreteria politica del Partito Popolare Italiano. È presidente della Associazione G. Dossetti “Per una nuova etica pubblica”.