Contro il “capitalismo di spremitura”, ovvero: Olivetti aveva capito tutto

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In una recente intervista a Giovanni Floris, Gianni Cuperlo ha affermato che il centrosinistra deve “tornare a pensare” affrontando il “problema di capire con quali nuove categorie leggere il mondo”. Propongo di fare questo esercizio, di leggere la cronaca degli ultimi mesi attraverso una lente particolare. Questa lente si chiama “capitalismo estrattivo” o, per ricollegarmi a un fatto che a breve descriverò, “capitalismo di spremitura”.  

Iniziamo dall’analisi della realtà, a partire da quattro notizie, apparentemente scollegate, apparse sugli organi d’informazione nazionale. Per primo un articolo a firma di Elena Dusi, che tratta dei “60 anni di manipolazione della scienza da parte dell’industria di cibo e bevande” volti a nascondere gli “effetti negativi dello zucchero – ogni anno nel mondo ne consumiamo 170 milioni di tonnellate – per quanto riguarda carie, obesità e diabete (con pochi dubbi al riguardo)”. Quindi un altro articolo, questa volta a firma di Gianmarco Aimi che – con mesi di anticipo rispetto al clamore mediatico del Black Friday di Amazon – già a marzo denunciava che il colosso mondiale del commercio elettronico (il cui fondatore è diventato in pochi anni l’uomo più facoltoso del mondo) si arricchisce a spese di  “lavoratori spremuti come limoni, che non possono comunicare con l’esterno e dopo anni di usura causata da compiti meccanici, ripetuti per ore, vengono incentivati all’esodo a cifre irrisorie”. La terza informazione ci viene proposta da un lungo servizio di Le Iene, sulla Valle del Sacco, un’intera vallata in cui (fra Frosinone e Roma) a causa di un’azienda che per anni sversava rifiuti tossici nel terreno (inquinando anche le false acquifere) ogni due settimane – denuncia un’associazione spontanea di residenti – a qualcuno viene diagnosticato un tumore, mentre le madri disperate dicono di “morire al pensiero di lasciare i propri figli in questa terra”. Quarta e ultima notizia è quella portata da Flavia Amabile sul tema delle periferie, che in Italia importano oltre 15 milioni di cittadini che vivono in contesti degradati, con la necessità di una spesa pubblica di almeno 20-25 miliardi. Uno fra i tanti casi di periferie degradate è quello del quartiere Falchera a Torino, “nato nel 1974 per gli operai del Meridione italiano, Puglia, Calabria, Sicilia, e per quelli arrivati dal Veneto”, quartiere dove oggi i residenti descrivono “una lotta per tutto. Per l’acqua che pioveva dentro casa. Per avere il tram. Per avere qualche iniziativa culturale nel quartiere”.  

All’apparenza sono storie diverse, e invece ci parlano tutte del medesimo fenomeno: il capitalismo e la sua natura estrattiva. Di capitalismo estrattivo hanno iniziato, da anni, a parlare molti studiosi; una fra tutti Saskia Sassen. L’espressione “capitalismo estrattivo” è nata per descrivere i fenomeni di accaparramento, da parte di grandi gruppi multinazionali, dei diritti di sfruttamento su certe materie prime (dall’estrazione di minerali, al disboscamento a fini di rivendita, fino al diritto di pesca). La multinazionale arriva, porta via tutto l’accaparrabile (estrae cioè la risorsa fino allo sfinimento); e poi se ne va, lasciandosi alle spalle scenari naturali e sociali a dir poco apocalittici. 

L’estrazione però non è una dinamica confinata alla pratica mineraria, o alla pesca. Mancare di informare le persone sui rischi per la salute che il consumo di un proprio prodotto comporta, vuol dire arricchirsi estraendo valore dalla loro salute. Ho menzionato il caso delle multinazionali dello zucchero che si arricchiscono a spese di chi diventa diabetico; ma potevamo pensare ai produttori di amianto che – nascondendo le informazioni sulla pericolosità – hanno fatto profitti a scapito della vita e della salute delle persone, nonché a scapito del futuro di intere comunità urbane (come a Casale Monferrato).  

La vicenda riportata da Le Iene sulla Valle del Sacco è, di nuovo, una questione di estrazione. Se è vero che questo dramma collettivo è stato prodotto non dall’asportazione di materie prime, bensì dall’aver per decenni sotterrato rifiuti tossici fino a inquinare le falde acquifere (facendo poi ammalare un’intera popolazione), è però anche vero che i profitti sono sempre stati fatti risucchiando vite, storie, speranze, salubrità dell’ambiente, qualità della vita di una intera comunità umana. E cosa dire poi dei lavoratori sfruttati, di cui Amazon è solo un triste esempio fra moltissimi. “Spremuti come limoni” si definiscono i magazzinieri di Amazon, che sottolineano come se le malattie da lavoro (“Le patologie al tunnel carpale, alla schiena e alla colonna vertebrale”) “non si contano”. L’azienda offre pure un assegno a chi vuole andarsene dopo cinque anni di lavoro: «Preferiscono pagare per mandarci via, piuttosto che tenerci dopo averci spremuto come limoni».  

Che differenza c’è fra una miniera sfruttata fino all’ultima pepita e poi abbandonata e un lavoratore distrutto nel fisico da turni massacranti e poi lasciato a casa con quattro lire di buona uscita? Nessuna. E che dire delle nostre periferie, la cui radice non sta nell’essere lontane dai centri storici, bensì nell’essere servite come dormitori per manodopera a basso costo per aziende che – quando è poi convenuto delocalizzare – hanno lasciato interi territori nel degrado e nella desolazione? Sono tutte forme di spremitura: spremuti i lavoratori, spremuto il territorio (che spesso per far spazio agli stabilimenti ha fornito infrastrutture, case, ospedali, eccetera), spremuto l’ambiente. E poi via, a spremere qualcuno altro, lasciando a terra solo gli scarti, umani e ambientali, senza distinguo. 

Come fare allora per prevenire queste dinamiche? Questa non può che essere una domanda fondamentale e fondativa del centrosinistra. Per trovare una risposta dobbiamo anzitutto riconoscere la drammatica attualità delle parole di Palmiro Togliatti che nel 1963 affermava: “Lo sviluppo economico è stato finora regolato, essenzialmente, dalla dura legge del profitto, dell’interesse del grande capitale e dei ceti privilegiati. Il popolo ha lavorato forte. Il ritmo del lavoro nelle officine è diventato così intenso che esaurisce un uomo nel corso di non molti anni”. Le parole di Togliatti vanno però aggiornate: oggi non si tratta solo di sfruttamento dei lavoratori, e di ingiusta distribuzione dei profitti; oggi abbiamo il tema dell’inquinamento industriale, del consumo di suolo, delle delocalizzazioni che creano periferie urbane e sociali. E questi problemi sono emersi e continuano a emergere sia che il “padrone” sia il “capitalista”, sia che si sia proceduto alla statalizzazione delle aziende, come nel caso delle grandi industrie sovietiche. 

In radice il problema è il contrasto fra la “funzione sociale della proprietà privata” cui fa riferimento l’articolo 42 della nostra Costituzione e il modo in cui siamo abituati a pensare al proprietario come colui che esercita una signoria tendenzialmente privativa e autoreferenziale sulle “sue” cose. 

Non siamo forse davvero proprietari solo quando possiamo tenere per noi soli la nostra “roba” e farne ciò che vogliamo, anche distruggerla per il solo fatto di volerlo fare? La vera riforma sociale, capace di prevenire in modo strutturale ogni forma di spremitura e di fornire una base solida per l’edificazione di un mondo migliore, non nasce allora dalla pretesa di contenere le dimensioni dell’abuso proprietario; bensì dal riconoscimento che la materia deve servire al progresso di tutta l’umanità e che ogni forma di abuso è incompatibile con l’appartenenza di tutti e di ciascuno alla grande famiglia umana. Servono certamente normative efficaci, capaci di reprimere lo sfruttamento, di prevenire le tragedie che consumano vite e speranze umane, di garantire il risarcimento delle vittime. Insieme a queste, e oltre queste, serve però un moto di coscienza generale. Da questo punto di vista, se pensiamo ad esempio alle dimensioni insostenibili dell’evasione fiscale, comprendiamo le parole del Pontefice: “La ragione delle tasse sta anche in questa solidarietà, che viene negata dall’evasione ed elusione fiscale, che prima di essere atti illegali sono atti che negano la legge basilare della vita: il reciproco soccorso”.  

Quale alternativa allora al capitalismo? Dovremmo forse rimpiangere i “padroni illuminati” che, magari con una nota di paternalismo, provvedevano ai bisogni dei loro lavoratori? La risposta è no perché – come chiarifica il Papa – “bisogna puntare a cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale. Imitare il buon samaritano del Vangelo non è sufficiente. Certo, quando l’imprenditore o una qualsiasi persona si imbatte in una vittima, è chiamato a prendersene cura, e magari, come il buon samaritano, associare anche il mercato (l’albergatore) alla sua azione di fraternità. Ma occorre agire soprattutto prima che l’uomo si imbatta nei briganti, combattendo le strutture di peccato che producono briganti e vittime. Un imprenditore che è solo buon samaritano fa metà del suo dovere: cura le vittime di oggi, ma non riduce quelle di domani”. 

Serve allora quello che il Programma di Liberi e Uguali definisce come un nuovo modello di sviluppo, sostenibile e inclusivo, partecipativo e circolare, un modello che però non si può realizzare con un’azione meramente repressiva dello Stato. Tecnologia e finanza internazionale rendono oggi il trasferimento di capitali un’attività che facilmente sfugge al controllo dei poteri pubblici, così riducendo significativamente la supposta sovranità nazionale. E neppure si può immaginare che – senza una rivoluzione morale che parta dall’intimo delle coscienze e si trasformi in mutati rapporti di forza – si possa semplicemente creare un’autorità finanziaria internazionale che – creata dagli Stati – possa efficacemente agire là dove essi si rivelano spesso impotenti. La vera rivoluzione passa allora necessariamente dal coraggio di dire che “il re è nudo”, che la proprietà non è un furto a patto che se ne promuova la funzione sociale, a patto che non la si consideri come essenzialmente anti-sociale.   

In questo ancora sta l’avvenire profetico di Adriano Olivetti che, negli studi preparatori condotti insieme a Franco Ferrarotti (sulla “quadruplice radice di legittimità della proprietà privata”) immaginava di spogliarsi della proprietà dell’azienda, per costruire un meccanismo giuridico di partecipazione che socializzasse la fabbrica, permettendo al territorio, ai lavoratori e alle università di contribuire (di diritto, e non per concessione sporadica o scarsamente significativa) a gestire l’azienda in modo da farne un bene di comunità, una leva di benessere sostenibile e inclusivo. Troppi ancora oggi pensano all’Ingegner Adriano come a un utopista, un “padrone buono”. Olivetti aveva invece capito chiaramente che, come stigmatizzato dal Papa, “il capitalismo conosce la filantropia, non la comunione. È semplice donare una parte dei profitti, senza abbracciare e toccare le persone che ricevono quelle “briciole”.

Per chiunque si occupi di post-capitalismo (che poi oggi è, con evidenza, sinonimo di futuro) è impressionante notare come i modelli economico-giuridici con cui Olivetti intendeva realizzare il suo progetto di “superamento di socialismo e capitalismo” comprendano e superino le riflessioni oggi più avanzate, a livello accademico così come di proposta politica. Forse ci servirebbe allora un po’ del radicalismo di Olivetti, che mette radici nel cielo della pace universale e le trasforma in riforme radicali delle strutture della realtà economica e sociale.  

Serve tornare a domandarsi cosa legittimi un diritto di abuso che – con evidenza – è contrario alla Ragione e contrario alla creaturalità umana. Ove non si trovi una risposta, bisognerà allora garantire davvero la massimizzazione strutturale della funzione sociale della proprietà. 

Se perfino Giulio Tremonti, sul canale televisivo dei vescovi italiani, ha potuto dire che “si sono avverate le profezie di Marx”, forse è il caso che tutta la sinistra (o il centrosinistra, a seconda delle definizioni), a livello mondiale, riprenda in mano l’eredità di Olivetti e progetti, in modo scientifico e partecipato, le strutture della società post-capitalista. L’alternativa, altrimenti, è la spremitura generale, dell’ambiente e dell’umanità, spremitura che (forse per fortuna) è insostenibile, e dunque non sarà eterna.  

 

Gabriele D'amico

Torinese, avvocato, appassionato di diritto ed economia della cultura, dottorando fra Berlino e Gerusalemme in diritti umani e diversità culturale. Consapevolmente olivettiano, credo nella capacità umana di superare la gregarietà del sistema limbico e ragionevolmente spero in un futuro di sviluppo umano integrale.