“Chi comanda lì dentro?”. La domanda del padrone, e del servo

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Di ritorno da Roma apprendo col mio gruppo di amici di non fare più parte del gruppo delle mummie, ma di esser stato promosso al rango di ‘massimalista’. Segue dibattito nel merito se sia meglio o peggio… Leggo dalle prime agenzie, senza molto stupore in realtà, le frasi con le quali il leader di quello che fu il partito dei lavoratori accoglie la nascita di un nuovo movimento che ai valori della sinistra si ispira. Non è che mi aspettassi un ‘benvenuti’, o ‘saluto con fervore i fratelli della sinistra’. No, per carità. Ma la frase  ‘Chi comanda lì dentro?’ tradisce un  copione logoro, un nervosismo sottotraccia che non riesce nemmeno ad attendere ventiquattro ore per tracimare. Insomma, il colpo era già in canna.

Chi comanda, lì dentro’?, richiesta rivelatrice del distorto modo di concepire la dialettica democratica. ‘Voglio sapere chi è il capo! E se non lo sapete, ve lo dico io. E’ D’Alema!’. D’Alema l’immanente, figura evocata come causa di ogni sventura, nemico interno quando era ancora nel Pd, ora assurto a vera e propria ossessione persecutoria. No, non è un intento dialettico, nemmeno critico, e manco di sfida politica quello che sottende queste parole. Quanto piuttosto un frasario che rivela il fantasma della ricerca del capo, che legge il domani attraverso parametri di dominio e sottomissione. Essere servo, essere padrone, una logica orientata verso l’ordine gerarchico dei rapporti, più che improntata ai parametri della rappresentatività.

Chi comanda qua?, lo chiede il servo, ma anche il padrone. Il primo perché anela alla posizione di sottomesso che lo sostiene e ne alimenta l’animo. Il secondo, perché bramoso di affermare fallicamente la propria superiorità immaginaria verso chi, a torto o a ragione, si ritiene al vertice  di quel mondo avverso, piccolo o grande che esso sia.

‘Io non parlo con i dipendenti. Mi faccia chiamare il direttore’, dice il cumenda gonfio di banconote che non va in banca a perdere tempo con chi sta al bancone.

‘Dei contadini ce n’è bisogno, se no la terra va in malora. Ma il padrone? A cosa serve il padrone?’ diceva Alfredo in ‘Novecento’. Già, a cosa serve il padrone, se siamo in tanti, ciascuna con la propria  idea?  Ad alcuni serve il padrone, eccome se serve! Quando le parole non circolano, quando la dialettica è strozzata. Quando le idee, la voglia di dibattere, si è spenta. Quando la voce dissonante è un fastidio. Quando, anche scavando a fondo, non si trovano idee. Quando gli slogan si fanno programma politico, il padrone permette di vivere tranquilli

C’è un passo de ‘La Nausea ‘ di J.P Sartre, nel quale egli descrive la pacifica cittadina ove gli abitanti vivono sereni e senza tormenti, avendo delegato le idee e il pensiero critico all’eroe raffigurato nel monumento centrale della città, il che li esonera dal difficile compito del pensare. Figuriamoci del dibattere. Ecco a cosa serve il padrone.

Cercare il padrone, sentirsi padrone, esprime un’idea della politica che sottomette il concetto di rappresentanza a quello di servitù. Vestirsi da padrone, senza esserlo davvero. Andiamo a comandare, mantra ripetuto ossessivamente dal renzismo colpito al cuore dal referendum. Dove si comanda, non si discute. Dove si comanda, non esiste rappresentanza, ma solo specchi riflessi del volere del capo. Dove si comanda non si usano le parole.

Sono ben altri i figuri che stanno cercando di piantare le loro bandiere con intenti proprietari in questa Italia colpita dalla crisi economica. Stanno tornando i saluti romani, le aggressioni di stampo fascista, le intimidazioni. Basta fare un giro per i mercati di paese per accorgersi che i pericoli son ben altri, che non l’ombra di D’Alema. Questi gruppi offrono aiuti immediati, pacchi spesa, generi alimentari per le famiglie indigenti. Le nuove destre hanno preso atto che le nostre parole sono cadute in disuso, e se ne stanno appropriando. Chi cavalca il populismo, comanda gli istinti. E’ questa la forma di prevaricazione che ci deve davvero preoccupare. Subdolamente si insinuano nel vuoto delle risposte, bussano alle porte e si offrono per fare manutenzione spicciola, in cambio di un voto. Minacciano i quotidiani, pestano a sangue i giornalisti. E’ questa la peggiore declinazione del verbo comandare. Dietro a questa onda nera che va montando si nasconde il vero volto di chi vuole  imporre una visione antidemocratica e sconfitta dalla storia.

E’ vero che costoro si muovono sull’onda del populismo, ma quello che dobbiamo chiederci noi, noi tutti, lasciando i complotti a chi le piazze non le frequenta da tempo, dove eravamo? Dove eravamo quando le domande di tanti cittadini rimenavano inevase? Dove eravamo quando le file alla Caritas si ingrossavano? Dove abbiamo volto lo sguardo, per non vedere figure nere che si avvicinavano alle mani protese di questi nuovi poveri, sordidamente intessendo la trama con la quale innestarsi nel tessuto sociale?

Non è votando Grasso che si fa un regalo a Berlusconi. Quel regalo lo ha fatto chi lo resuscitato politicamente, dandogli il rango di partner privilegiato, al riparo dagli screzi di una battaglia elettorale tramutata in un cinguettio di cortesie reciproche. Un politico durante il cui Governo , è bene ricordarlo, hanno trovato spazio i cantori del neo revisionismo, quelli che hanno tramutato il 25 Aprile nella ‘Festa della libertà’.

E’ dunque bene che, da oggi in poi, ci facciamo scivolare addosso il livore accusatorio di Renzi, le sue rancorose interviste ai quotidiani figlie di un vuoto di risultati assordante. E’ tempo di ricordare che le città alle destre sono state regalate da si è dimenticato dei cittadini più poveri e delle loro istanze, preferendo disquisire di leopolde, banche e fake news.

E’ altro il nero che ci aspetta. Basterebbe adottare una prospettiva meno autoreferente, per accorgersi che la rabbia che attraversa le città, non è quella strillata dai telemaici barricati nelle mura della Leopolda (‘là fuori, c’è solo odio’ , gridavano) limitati dalla loro miope ottica rivolta solo ed esclusivamente agli avversari politici. Quanto piuttosto quel ‘rancore sociale’, diffuso e interclassista, fotografato dal Censis alcuni giorni fa. Un rancore legato all’aumento dell’impoverimento e al blocco della mobilità sociale.

Sta a noi impedire che questo rancore venga intercettato da chi lo vuole tramutare in odio. Sta a chi vuole fare politica, e non populismo da tv, andare a disinnescare quelle cause che lo hanno portato a diventare un bomba in attesa che qualcuno accenda la miccia. Sta a una forza di sinistra andare strada per strada, casa per casa, a recuperare tutte quelle voci che in questi ultimi anni non sono state ascoltate. Altro che D’Alema e la sua ombra.

Maurizio Montanari

Psicoanalista. Responsabile del centro di psicoanalisi applicata LiberaParola di Modena (www.liberaparola.eu). Membro Eurofederazione di psicoanalisi