Il caso Boschi, figlio della normalizzazione del conflitto di interessi

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Sfuggito all’attenzione dell’opinione pubblica a seguito della provvisoria eclissi di Silvio Berlusconi, il tema del conflitto di interessi, delle “relazioni pericolose” tra potere politico ed interessi economici, è ritornato prepotentemente d’attualità con riferimento alla posizione di Maria Elena Boschi, e al grossolano intreccio di domande che diventano sollecitazioni, sollecitazioni che non sfociano in pressioni lungo il quale si dipana la vicenda di Banca Etruria.

Rimettendo alla Magistratura e alle altre autorità di controllo ogni valutazione in ordine alla liceità della condotta osservata dai protagonisti di tale vicenda (valutazione peraltro irrilevante, ai fini delle riflessioni proposte in questa sede), la scelta dell’attuale Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio di non concedere il tanto sospirato “passo indietro” – scelta peraltro avallata dai vertici del Nazareno, disposti a accettare l’ennesima emorragia di consensi pur di “non sacrificare Maria Elena” -, non rappresenta la semplice reazione a una crisi imprevista e imprevedibile, ma il paradossale epilogo di una strategia perseguita negli ultimi anni da quella fetta di area democratica che oggi si identifica con i protagonisti de “La svolta buona”.

Una strategia volta a esaurire la potenziale carica eversiva del conflitto di interessi nel perimetro esclusivo del ventennio berlusconiano; una strategia basata sulla sostanziale “normalizzazione” delle intersezioni tra uffici pubblici e esigenze di tipo economico, considerate alla stregua di un inevitabile portato della modernità, in quanto tale insuscettibile di regolamentazione normativa, e incontrastabile a livello politico; una strategia che consente di ravvisare una sorta di filo conduttore tra le parole scandite da Fassino alla vigilia dell’ultimo congresso dei Ds (“Non è la legge sul conflitto di interessi che darà da mangiare agli operai”), la scelta di proporre (nell’ambito delle varie realtà territoriali) business–man dal piglio autoritario per ruoli istituzionali di primo livello e la profonda sintonia ricercata da Renzi con i principali esponenti della grande impresa, spesso a discapito delle istanze manifestate con sempre maggiore intensità dalla piazza del sindacato.

Confinando nell’ideale ridotta della “sinistra che perde” i rilievi di quanti continuavano a descrivere il conflitto di interessi come una questione democratica di primaria importanza, militanti e dirigenti del Pd hanno finito col rimarcare la fondatezza del grido d’allarme affidato, nel lontano 1982, da Enrico Berlinguer alla penna di Scalfari, dell’esistenza di un processo degenerativo in forza del quale i partiti abdicavano dalla loro naturale funzione di strumenti di partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese, per assumere quella (assai meno nobile) di “macchine di potere e clientela”, dedite alla cura di interessi diversi dal perseguimento del bene comune.

La vicenda di Banca Etruria è solo l’ennesima conferma dell’evoluzione di siffatto processo degenerativo, del fatto che Berlinguer vedeva lontano, del fatto che la “sinistra che perde” non poteva essere silenziata in una ridotta settaria. Fusioni e acquisizioni, risparmiatori infuriati e grand commis dai numeri di ghiaccio, ministri e banchieri, informazioni che generano sollecitazioni, sollecitazioni che non sono pressioni: e un partito in trincea, pronto a sopportare l’ennesima emorragia di consensi pur di non “sacrificare Maria Elena”; disposto a consegnare il Paese alla nuova, pericolosa avventura della destra post-berlusconiana pur di non affrontare le responsabilità di un gruppo dirigente formatosi alla luce delle intersezioni tra politica ed economia, della strategia suicida ispirata alla sostanziale “normalizzazione” del conflitto di interessi.

Carlo Dore jr.

Quarantadue anni, cagliaritano, docente universitario. Da sempre a sinistra, senza mai cambiare verso.