Dopo la “lunga recessione”: il Mezzogiorno senza strategia

| Economia

“Il problema del Mezzogiorno non può essere considerato soltanto un problema di quelle regioni: deve essere considerato un problema nazionale se lo si vuole risolvere.”

(Messaggio di fine anno agli Italiani di Sandro Pertini, 1982)

Anche nella Legge di Stabilità 2018, fra clausola di salvaguardia e mance elettorali che oggi chiamiamo “bonus”, il Mezzogiorno è il grande convitato di pietra.

Anzi, come paradosso politico, sta diventando centrale la cosiddetta “questione settentrionale”.

Un’istantanea del nostro Mezzogiorno mostra:

  1. Competenze tecnologiche e capacità industriali maturate nel tempo, specialmente in Campania e Puglia, che non trovano però adeguata “governance” anche per l’assenza di una strategia nazionale.
  2. Porti importanti per il Mediterraneo ma tenuti di fatto fuori dai flussi commerciali e finanche turistici, nazionali ed europei.
  3. Grande patrimonio culturale, paesaggistico e storico che inizia ad essere organizzato ma che da solo con può costituire un modello di sviluppo per l’ampiezza e complessità socio-economica.
  4. Strutture e infrastrutture insufficienti per garantire mobilità e uno sviluppo sostenibile.
  5. Legalità ostacolata e soffocata dalla depressione economica, dalla corruzione e dalla criminalità organizzata.
  6. Lavoro dignitoso pochissimo, ma spesso caratterizzato da sfruttamento delle persone e delle risorse ambientali per mero ritorno economico.  

Eppure, le rilevazioni e i dati che emergono dal recente Rapporto SVIMEZ 2017 offrono alcuni segnali positivi su cui però bisognerebbe intervenire con condivisione e determinazione, sia locale che nazionale.

Il Mezzogiorno è uscito dalla “lunga recessione”; nel 2016 ha consolidato la ripresa, facendo registrare una performance migliore, se pur di poco, rispetto al resto del Paese, proprio come l’anno precedente.  

Certo, un biennio in cui lo sviluppo delle regioni del Mezzogiorno è risultato superiore a quello del resto del Paese non è sufficiente a disancorare il Sud da una spirale in cui si rincorrono bassi salari, bassa produttività e bassa competitività, frenando un reale e sostenibile sviluppo del territorio.

La Banca d’Italia ritiene che l’Italia recupererà i livelli pre-crisi del 2008 solo nel 2019: ammettendo che il Mezzogiorno prosegua coi ritmi di crescita attuali, secondo le previsioni recupererà i suoi livelli pre-crisi soltanto nel 2028, dieci anni dopo.

Queste considerazioni non devono condurre a rassegnazione o pessimismo, ma a “calibrare” l’intensità e la natura degli interventi per il Sud, a mettere in campo una politica economica complessiva che miri all’accelerazione del tasso di crescita, nell’ambito del rilancio di una generale strategia di sviluppo per l’Italia, in cui le regioni meridionali possano svolgere un ruolo essenziale.

D’altronde, la ripresa della crescita ha rivelato diversi elementi positivi nell’economia meridionale, che ne mostrano la resilienza alla crisi, anche se non omogenea in tutte le regioni; su tutti, in particolare, la crescita delle esportazioni anche in un periodo di rallentamento del commercio internazionale.

L’industria manifatturiera del Mezzogiorno nel biennio è cresciuta cumulativamente al Sud di oltre il 7%, con una dinamica più che doppia di quella registrata nel resto del Paese (3%); ma è una crescita congiunturale che non ha solide basi per sostenere produttività ed occupazione nel mercato globalizzato.

Non a caso, uno dei veri punti di forza, il Sistema Produttivo dell’intera Area Metropolitana di Napoli, spesso identificato come quello delle “QUATTRO A”: Aerospazio, Automotive, Agroalimentare, Artigianato industriale, è alle prese con preoccupanti crisi industriali sia per la competitività aggressiva dei mercati e sia per la disabitudine nazionale alla programmazione strategica.

Se non intervengono adeguate politiche di rilancio, sarà difficile sostenere il sistema con tutto il suo indotto; e determinare la ripartenza dell’intera economia meridionale.

Di recente, il Governo è intervenuto in misura più decisa a favore delle imprese meridionali, mettendo in campo alcuni importanti interventi che configurano una “politica industriale regionale” (dal credito d’imposta per gli investimenti, al prolungamento degli esoneri contributivi per le nuove assunzioni, al sostegno alla nuova imprenditorialità giovanile e all’istituzione delle ZES). Ma l’individuazione di tali strumenti non è accompagnata da investimenti pubblici a breve-medio termine, i soli in grado di accompagnare il reale sviluppo ed incrementare l’occupazione.

Le imprese meridionali hanno del resto difficoltà ad accedere agli strumenti di politica industriale nazionale, come le agevolazione per l’acquisto delle macchine verso l’industria 4.0.   

Il minore impatto di “Industria 4.0” sul PIL e sulla produttività del Mezzogiorno sta ad indicare che la attuale leva nazionale per la politica industriale è da sola insufficiente all’ammodernamento del sistema produttivo, che al Sud paga ritardi strutturali.  

Occorre pertanto adottare una strategia generale che può partire dal dotarsi di una leva di forte attrazione e rilancio degli investimenti pubblici nell’area, che facciano da volano a quelli privati, sia nazionali che esteri.

Il contesto per lo sviluppo da assumere è il Mediterraneo, interpretato come orizzonte strategico, con una politica che vada ben oltre la gestione dei flussi migratori, e in cui il Mezzogiorno, alla luce delle partite geopolitiche che si stanno giocando nella regione, può contribuire alla definizione di un ruolo strategico per il Paese.

I porti meridionali sono marginalizzati nei flussi commerciali e strategici capaci di collegare il Paese ai grandi porti olandesi, tedeschi e del nord Europa.

L’occupazione è ripartita, ma: il Mezzogiorno che pure è tornato sopra la soglia “simbolica” dei 6 milioni di occupati, resta di circa 380 mila sotto il livello del 2008, con un tasso di occupazione che è il peggiore d’Europa (di quasi 35 punti percentuali inferiore alla media Ue a 28).

La crescita, legata soprattutto agli occupati anziani e al lavoro a tempo parziale, non riesce a invertire la preoccupante ridefinizione della struttura e della qualità dell’occupazione che si è determinata con la crisi.  Si registra così il consolidarsi del cosiddetto “dualismo generazionale”: circa 2 milioni giovani occupati in meno  rispetto al 2008, su tutto il territorio nazionale.

L’aumento del part time non deriva dalla libera scelta individuale degli occupati di conciliazione dei tempi di vita, né tanto meno da una strategia di politica del lavoro orientata alla redistribuzione dell’orario. Esso è interamente ascrivibile al part time “involontario”, cioè all’accettazione di contratti a tempo parziale in carenza di posti lavoro a tempo pieno, che ha consentito ad una quota sempre maggiore di occupati di mantenere nella crisi e/o di trovare nella ripresa un’occupazione.

La conseguente diminuzione delle ore lavorate, deprimendo i redditi complessivi, ha contribuito alla crescita dell’incidenza dei dipendenti a bassa retribuzione; ha migliorato numericamente il livello occupazionale ma non ha avuto un significativo impatto sull’emergenza sociale che nelle regioni meridionali resta altissima.

La povertà rimane pertanto sui livelli più alti di sempre e il livello di  disuguaglianza interno all’area deprime la ripresa dei consumi.

Le politiche di austerità hanno determinato il deterioramento della capacità del welfare pubblico di controbilanciare le crescenti disuguaglianze indotte dal mercato.

Solo un consistente e permanente aumento di capitale produttivo può fornire la risposta necessaria da dare per il superamento della condizione di difficoltà economica e sociale in cui ancora versa il Mezzogiorno e per assicurare ai cittadini un accettabile livello di reddito e di prestazioni sociali.

Le misure universalistiche di contrasto alla povertà, di natura congiunturale anticiclica, sono altrettanto necessarie (il REI-Reddito di Inclusione) ma di sicuro non garantiscono il futuro e del resto insufficienti a coprire l’intera platea dei possibili beneficiari.

L’invecchiamento demografico può creare difficoltà aggiuntiva al riavvio del processo di sviluppo nel Mezzogiorno: una popolazione più vecchia in un’area ancora caratterizzata da un forte deficit di capitale fisso sociale potrebbe innescare un pericoloso circolo vizioso di maggiori oneri sociali, minore competitività del sistema economico, minori redditi e capacità di accumulazione e crescente dipendenza dall’esterno.

Il Sud non è già più un’area giovane né tantomeno il serbatoio di nascite del resto del Paese, e va assumendo tutte le caratteristiche demografiche negative di un’area sviluppata e opulenta, senza peraltro esserlo mai stata.

In base alle tendenze in atto, mentre la dinamica demografica negativa del Centro-Nord è compensata dalle immigrazioni dall’estero, da quelle dal Sud e da una ripresa della natalità, il Mezzogiorno resterà terra d’emigrazione “selettiva” (specialmente di qualità), con scarse capacità di attrarre immigrati dall’estero, e sarà interessato da un progressivo ulteriore calo delle nascite.

La soluzione per i problemi strutturali dell’economia meridionale non verrà da una ripresa internazionale a cui “agganciarsi”, ma realizzando una strategia di sviluppo di ampia portata attraverso l’abbandono della politica di austerità (profonda revisione del ‘Fiscal compact’) con l’obiettivo di un rilancio degli investimenti pubblici, come già sottolineato.  

Gli investimenti pubblici, rispetto ad altri tipi di politiche, come la riduzione delle tasse, mantengono una più elevata capacità di generare reddito rispetto all’entità dell’intervento iniziale.

I moltiplicatori sono sempre superiori all’unità soltanto per gli investimenti pubblici, determinando perciò un impatto positivo. Per il Mezzogiorno, mentre la riduzione di 1 euro di tasse indirette determina un incremento di 0,19 centesimi del PIL, 1 euro aggiuntivo di investimenti pubblici produce un incremento di 1,37 euro.

L’andamento della spesa in conto capitale in questi anni appare situare il Mezzogiorno su un livello strutturalmente più basso rispetto ai livelli pre-crisi: segno anche di una perdita, ad ogni livello di governo, di capacità progettuale e realizzativa della macchina pubblica.

L’attivazione della “clausola del 34%” – cioè la previsione nel primo “decreto Mezzogiorno” di un livello di spesa ordinaria in conto capitale delle Amministrazioni Centrali da destinare al Sud proporzionale alla popolazione residente (il 34% del totale nazionale, appunto) – potrebbe invertire il trend di declino della spesa in conto capitale in corso dai primi anni Duemila.  

L’obiettivo di riequilibrio territoriale passa infatti necessariamente attraverso una profonda ridefinizione dei programmi di spesa in conto capitale, magari con l’istituzione di un Fondo specifico in cui riversare le eventuali risorse ordinarie non spese nel Mezzogiorno, per poi finanziare i programmi maggiormente in grado di raggiungere l’obiettivo, migliorando l’efficienza e l’efficacia della spesa.  

Il riequilibrio territoriale, fondato sulla responsabilità e leale cooperazione dei livelli di governo, consentirebbe non solo di ridurre i divari sociali, evidenziati da povertà e disuguaglianze crescenti, ma di configurare un vero e proprio nuovo patto per lo sviluppo, in cui il Sud possa concorrere, da protagonista, al rilancio dell’intero Paese.

Rosario Muto

Laureato in Ingegneria Elettrotecnica c/o Politecnico di Napoli. Lavora nel Settore Aeronautico di Leonardo-Finmeccanica c/o Stabilimento di Pomigliano d’Arco (NA). Si interessa di Business Development & Program Management nell’ambito delle nuove iniziative industriali. Autore di studi su “Programmazione Industriale nell’area metropolitana di Napoli tra suggestione e realtà”. Esperienze maturate anche nelle Istituzioni Locali.