Siamo a fine legislatura, come al solito è troppo tardi per il fine vita

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Loris Bertocco ha scelto la Svizzera per porre fine a una vita insostenibile. Così come ha scelto di fare, alcuni mesi orsono, dj Fabo. Riaprendo così, nei media e negli animi delle persone sensibili, un po’ meno in parlamento, il dibattito sul tema della scelta del fine vita.

E’ il 1992 quando Eluana Englaro ha un incidente fatale. Da quel giorno in poi seguiranno 11 anni di battaglie legali e di sentenze, attraversando le quali l’azione solitaria di Beppino, suo padre, ha messo in evidenza tutte le contraddizioni  e le lacune del sistema giuridico e politico, costretto ad arrancare  goffamente, nel tentativo di fermarlo.  Lo stallo attuale della legge sul testamento biologico non è un caso. Si tratta di un vacuum che rappresenta  bene  quali siano le  conseguenze  di quello che Lacan ha definito il tramonto dell’Altro, quell’insieme di codici, regole, usanze, che plasma e orienta il legame sociale. Evaporando il quale si crea un vuoto sul quale si installano diverse istanze con la pretesa di regolare i costumi. Mai come nel campo del fine vita questo spazio è stato terreno di conquista di pulsioni religiose o psedudoreligiose.

Englaro ha accompagnato il legislatore sul balcone del quotidiano, ha aperto le finestre mostrando che ogni giorno, in tante parti d’Italia, decine e decine  di medici, a rischio di incriminazione, stanno vicini ai malati terminali scegliendo di non protrarre forme di accanimento terapeutico. Allora il legislatore preferì chiamarsi fuori, subordinando il suo mandato all’interpretazione della parole di un Dio che appariva non già il Dio della Misericordia, quanto una divinità Maya, se davvero le sue volontà dettavano la sofferenza sine die per uomini che mai avrebbero conosciuto la guarigione.

Beppino divenne oggetto di una fatwa di uno Stato che conobbe una delle peggiori derive confessionali del dopoguerra. Il 17 settembre 2008 Camera e Senato presentarono due ricorsi diversi alla Corte Costituzionale, dichiarati inammissibili. Il 16 dicembre il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi emanò un “atto di indirizzo” con il quale veniva vietato di interrompere l’alimentazione artificiale a tutte le strutture del servizio sanitario nazionale o convenzionate con esso.  Il 3 febbraio la famiglia Englaro decise di lasciare la regione Lombardia e di portare Eluana nella clinica “La Quiete” di Udine, dove Eluana trovò la pace. Troppo per un uomo solo.

E’ il settembre di quest’anno il periodo scelto da un ingegnere di Albavilla per recarsi in Svizzera a porre fine ad una vita ormai consumata dalla depressione. Non parliamo  di disabilità fisica, ma di un tabù che né il legislatore, e nemmeno il senso comune, sembrano voler violare. Almeno in Italia.

Entriamo di fatto in una questione che in alcune parti del mondo è già stata affrontata: la posizione etica da assumere nei confronti dei pazienti affetti da depressione intrattabile, quella melanconia profonda e strutturale che consegna la loro vita ad una perenne posizione di oggetto scarto, ai margini della vita , intrappolati in un cono d’ombra dell’esistenza che rende  impossibile l’integrarsi con l’Altro. Che fare quando il desiderio, la scelta del soggetto, vira inequivocabilmente sul fine corsa? Quando il solo sollievo per pazienti di tal tipo è la cessazione di una vita per la quale essi stessi si sentono ‘inadatti’?

I quotidiani riportavano che Laura (nome di fantasia) vive in Belgio ed ha 24 anni, sta bene fisicamente.  Vuole morire perché è depressa da troppo tempo e ritiene che «vivere non faccia per me». La legge introdotta in quel paese nel 2002 lo consente.  Padre, alcolista e violento, ha spaccato la famiglia fin da quando lei era piccola. Dopo la separazione dei genitori, ha passato sempre più tempo con i nonni materni, anche se a soli sei anni afferma di aver cominciato a pensare al suicidio. Durante l’intervista, spiega il giornale belga, Laura parla «in modo calmo e tranquillo, è sicura di sé»: «Anche se la mia vicenda familiare ha contribuito alla mia sofferenza, sono convinta che avrei avuto questo desiderio di morire anche se fossi cresciuta in una famiglia tranquilla e stabile. Semplice, non ho mai voluto vivere». A causa delle continue depressioni, Laura rompe ogni tipo di legame e si fa convincere ad entrare in una clinica psichiatrica. Qui comincia un periodo ancora più difficile . Laura inizia a pensare di avere dentro di sé un «mostro» che chiede di uscire e che «niente può guarire», «fonte di aggressività, collera e dolore». In clinica non riescono a curarla, e spesso la rimandano a casa per permettere al personale di «respirare un po’».  Viene ritenuta capace di intendere e di volere.

Lucio Magri soffriva di una depressione totalizzante. Un lento scivolare nel buio provocato da un intreccio di ragioni, pubbliche e private. Sul fallimento politico – conclamato, evidentissimo – s’era innestato il dolore privato per la perdita di una moglie molto amata, Mara, che era il suo filtro con il mondo. Magri scelse di chiamarsi fuori scegliendo anch’esso la via Svizzera.

Questi casi rimandano al dilemma illustrato da E. F. Wallace, quando scrive: ‘La persona che ha una così detta “depressione psicotica” e cerca di uccidersi lo fa “per sfiducia” o per qualche altra convinzione astratta che il dare e avere nella vita non sono in pari. E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente. La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme. Eppure nessuno di quelli instrada che guardano in su e urlano “No!” e “Aspetta!” riesce a capire il salto. Dovresti essere stato intrappolato anche tu e aver sentito le fiamme, per capire davvero un terrore molto peggiore di quello della caduta”

Su questo tema confesso l’incrinatura delle mie certezze. La mia debolezza, il mio umano non sapere. Sento in tanti pazienti il raggiungimento di quella soglia di cui parla Lacan quando dice: ‘Quanta ne potete sopportare di angoscia?’. E lo dico a fronte di tanti anni passati a ricevere persone, anni nel corso dei quali ho maturato la convinzione che non tutte le vite siano degne di essere vissute.

Da un lato ho la certezza ed irriducibile della mia posizione professionale, che mi porta a non arretrare mai davanti al buio, certo che la posizione etica dell’analista non debba mai, mai una sola volta, venire meno di fronte al depresso grave, attraverso la presenza fisica, la voce, la reperibilità costante, la disponibilità all’ascolto in qualsiasi orario del giorno o della notte. Pronto ad aprire lo studio anche nei periodi festivi, oppure a stare ore al telefono se il soggetto sente di non farcela piu. Faccio l’analista. E sono stato un paziente.

Come tale conobbi drammaticamente sulla mia pelle le conseguenze del venire meno di tutto ciò,  quando incontrai , tempo fa, questo buio dell’anima nella mia storia personale. Dunque  conosco bene  il prezzo che si può pagare quando il sostegno fugge. Per questo ho fatto del tenere la posizione, sempre e comunque, la cifra della mia professione. Ma oltre ad essere un analista, sono un uomo, un cittadino. Un papà. E come tale vorrei, che il legislatore, nel tempo, prendesse atto dello strazio dei viaggi all’estero di chi ha scelto che può bastare così. Chissà se prima della fine della legislatura c’è ancora tempo per dire qualcosa, o dobbiamo proprio parlare solo di legge elettorale.

Maurizio Montanari

Psicoanalista. Responsabile del centro di psicoanalisi applicata LiberaParola di Modena (www.liberaparola.eu). Membro Eurofederazione di psicoanalisi