È la lotta alle disuguaglianze il centro da conquistare. Anzi, il mainstream

| L_Antonio

Lo hanno detto D’Alema e Bersani ma lo ripetiamo ormai un po’ tutti: è cambiata la fase. La curva liberista attenua la sua parabola, e sono tali le disuguaglianze, le precarietà e le vite flessibili soprattutto tra i giovani che, se la sinistra non mette presto mano alla questione con risolutezza, il mondo futuro sarà persino più ingiusto dell’attuale. E ho detto tutto, diceva Peppino De Filippo. Ha ragione Corbyn, oggi la lotta alle disuguaglianze è davvero il mainstream, il ‘centro’ dell’iniziativa politica. Lo chiedono i giovani, i lavoratori precari, le famiglie che non riescono più a investire sui propri figli, ce lo spiega un mondo sempre meno coeso, segnato da profondi divari, abissalmente destinato al caos.

Conquistare questo ‘centro’ (non quello politico, non quello topografico, ma quello ‘sociale’, quello delle persone in difficoltà) diventa il primo obiettivo. Si parla tanto di ‘politicismo’: bene, ‘politicismo’ è ignorare la specifica dimensione di questo dramma collettivo, agire come se davvero fosse tutta una questione di ‘individui’, meritocrazia, pari opportunità, governabilità, e il mondo non fosse invece una immensa ferita da risanare a colpi di redistribuzione. Che cosa è accaduto in questi anni? Enormi ricchezze sociali e pubbliche sono defluite, nel giubilo anche dei ‘poveri’, verso i patrimoni privati. E qui si sono addensate ben oltre la capacità di consumo di queste oligarchie, tale che quelle ricchezze si sono trasformate in masse di manovra politica e di pressione verso gli Stati. Ecco perché la politica è più debole e impotente, perché è sovrastata dai poteri non democratici.

Questo significa ‘movimentismo’? Niente affatto. Questa grande manovra di reinstatement sociale non può funzionare senza un rafforzamento della democrazia, e non di una democrazia on line, direttissima, capo/popolo, quanto delle istituzioni che la costituiscono, della rete di rappresentanza e partecipazione popolare, del dialogo pubblico, del sistema dei partiti e delle organizzazioni sociali. Una maglia, un’ossatura senza la quale le riforme sociali diventano operazioni che si compiono in una stanza dei bottoni asettica e presto inefficace negli intenti, per quanto nobili. In questo compito immane la sinistra oggi ha un senso. Solo in questo. Non deve darsi un’identità a tavolino, attorno al quale si scervellino intellettuali e dirigenti politici. E nemmeno deve ‘tradire’ se stessa sperando che ciò funzioni a proprio vantaggio, spingendosi in realtà a fare cose di destra, quale grasso favore alla destra stessa. Altro è il compito, ossia parlare al cuore e alla mente di chi si sente defraudato, tradito nel proprio futuro anche semplice, anche quotidiano (e forse di più rispetto alle aspettative di chi cerca invece brillanti carriere), di chi vive vite precarie in termini esistenziali, non solo lavorativi.

Questo è il ‘centro’, questo il mainstream, questo il sentimento che percorre giovani, donne, famiglie, lavoratori precari, flessibili, piegati a interessi che non sono i loro e che nemmeno rappresentano interessi generali. Qui deve conficcarsi la freccia della sinistra, al ‘centro’ di questo bersaglio. Protesa a una nuova idea di libertà. La fase è un’altra, appunto, perciò serve un’altra sinistra rispetto a quella che oggi conosciamo.

Guardiamo l’esito delle elezioni tedesche. Ci sono giovani e disoccupati che, emergendo dall’astensione, o provenendo dall’elettorato di sinistra, hanno scelto AfD non perché si trattasse di fascisti, ma perché si presentavano anche come antiliberisti. Come una specie di difensori del popolo. E facevano meno ‘paura’ dei liberali e dei loro programmi di smantellamento delle reti sociali. Bersani lo ha detto a chiare lettere: la nuova fase richiede più ‘protezione’, che vuol dire prendersi cura delle vite difficili, spezzate, della devastazione sociale, della coesione ridotta in pezzetti. La ‘mucca nel corridoio’ si nutre di queste paure, spinge la sinistra a votare a destra, a prendersela coi ‘neri’, con gli ultimissimi, muove i giovani a temere di più una democrazia astratta e ‘spompata’ dei fascisti. È una ‘mucca’ che non simboleggia solo la destra cattiva, protezionista e nazionalista, ma insiste sul consenso sociale potenzialmente di sinistra che la fa crescere in potenza. Per cui non basta esibire ideali di ‘solidarietà’, fratellanza, uguaglianza, quali tipici nostri valori. Si rischia di apparire fuori dal mondo. Bisogna altresì ‘incarnare’ questi valori nel vivo del bisogno diffuso di protezione. Solo allora il cerchio si chiude tra politica e società. Perché la crisi della sinistra non è crisi di valori, ma del loro ‘incarnato’. Da troppo tempo maneggiamo categorie che non trovano innesco, che non agiscono sul ‘molteplice’ sociale, che sono impotenti. Rischiamo di ‘comunicare’ cose, senza dare l’impressione di saperle (o volerle) fare.

In questa tragedia in cui l’astrattezza dei valori è abissalmente lontana dalla prassi, c’è solo un modo per ridistendere un ponte, per ripristinare la connessione tra principi e realtà. Ed è la riattivazione di una speciale ‘sensibilità’ per le molteplici vite che ogni giorno tirano a ‘campare’, di una nuova percezione delle loro esistenze in crisi. È un po’ come rimettere gli scarponi nel fango, dopo aver veleggiato per decenni tra le nuvole. Ma questo lo può fare solo un partito (e un sistema dei partiti) in una democrazia davvero ‘rappresentiva’, non singole personalità per quanto brillanti e volenterose. Un partito nuovo, moderno, radicato tra le classi e ceti sociali (lasciamo stare la parola ‘popolo’ che ci porta fuori strada), che viva nei quartieri e nei luoghi di lavoro e di formazione, che voglia tornare a ‘rassicurare’ e proteggere, chiudendo i decenni in cui ci hanno spiegato che dovevamo, invece, “essere affamati ed essere folli”. Viviamo oggi in una specie di dopoguerra e serve quindi una ricostruzione. Le risorse andiamo a riprenderle tra chi ne ha a bizzeffe e non sa più che farsene. Anche in quegli anni lontani scesero in campo i partiti, con donne e uomini che esprimevano il desiderio di rinascere. E a rimboccarsi le maniche, dopo le follie belliche, ci furono tante persone bisognose di nuove certezze, nuove prospettive, nuove assicurazioni, nel mezzo di un mondo che andava davvero ricostruito daccapo. Eccola, la rivoluzione.

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Alfredo Morganti Giorgio Piccarreta

Alfredo Morganti è da sempre appassionato di politica e di sinistra. Ama scrivere. Suona la batteria. Da qualche tempo si è scoperto poeta. Giorgio Piccarreta è funzionario del Comune di Roma. Coltiva orti, letture, l’amore e, fin da piccolo, la passione per la politica. Di sinistra.