Si scrive immigrazione, si legge politica estera. I limiti dell’Europa (e nostri)

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Il disegno di Altiero Spinelli (e con lui di Ernesto Rossi, Ursula Hirschmann e Eugenio Colorni, autore della prefazione all’edizione 1944) con il Manifesto di Ventotene guardava ad un nuovo progetto politico: unire i popoli europei. E invece presto hanno prevalso Realpolitik intergovernativa e logica tecnocratica. Il muro di Berlino cade il 9 novembre 1989. La riunificazione della Germania è del 3 ottobre 1990. Il 7 febbraio 1992 viene sottoscritto il trattato di Maastricht, la delegazione italiana formata dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti, dal ministro degli Esteri Gianni De Michelis e dal ministro del Tesoro Guido Carli. Evidente il legame tra riunificazione tedesca e una nuova fase del progetto europeo. In un contesto storico caratterizzato dall’esigenza di uscire dalla guerra fredda, favorendo il superamento della divisione, nel cuore d’Europa, determinata dalla colpa del nazismo e dalla logica successiva delle aree di influenza. E’ la stagione per la quale s’impegna Helmut Kohl e nella quale egli spende il suo peso politico. Una stagione i cui effetti positivi arrivano sino al lavoro della Commissione Prodi. Con la presidenza Barroso, quell’equilibrio s’incrina. Va accentuandosi il ruolo guida della Germania e la pratica dei summit con la Francia (senza la quale non sarebbero state salve neppure le apparenze): prima Merkel e Chirac; poi Merkel e Sarkozy; poi Merkel e Hollande; ora Merkel e Macron. Salvo alcuni recenti, ma marginali, episodi di coinvolgimento dell’Italia.

Però, attenzione: la critica ai limiti degli attuali assetti europei non è una questione italiana; è una questione europea. Da tempo Hans Jürgen Habermas, illustre discendente della Scuola di Francoforte, sostiene due cose. La prima: occorre promuovere un nuovo patriottismo costituzionale; non più suolo e sangue; ma libertà e responsabilità, diritti e doveri, in uno Stato di diritto allargato. Contro ogni neonazionalismo. Contro ogni sovranismo. La seconda: basta con le “retoriche europeiste della domenica”. Joschka Fischer, già vice cancelliere Verde e ministro degli Esteri con Gerhard Schröder dal 1998 al 2005, in un suo libro dal titolo in forma di una esplicita domanda – Fallisce l’Europa? – ha svolto una riflessione da cui emerge la denuncia del fatto che non è l’Europa ad essere un problema per la Germania; al contrario, se continua così, rischia di diventarlo la Germania per l’Europa. Non sono proponibili né la silenziosa accettazione dell’esistente né una rottura come quella auspicata dalla destra antieuropea. Se non vogliamo rassegnarci, da una parte, alla mera disciplina contabile, dall’altra alla propaganda dei professionisti della paura, la sfida è per un’Europa diversa da quella che, sin qui, si è limitata ad imporre il mantra del rigore, strumento in parte necessario, del tutto insufficiente.

Occorre un’Europa capace di colmare il deficit di fiducia tra popoli e istituzioni, di cui si alimentano i populismi. Sulle partite decisive l’Unione Europea è in affanno, a rimorchio dei problemi. Il caso più clamoroso, il modo come si pone di fronte a una vicenda epocale qual è il sommovimento demografico che genera il fenomeno migratorio. Un europeismo consapevole non può non tenerne conto. Non solo dai palazzi svettanti in vetrocemento di Bruxelles, anche dal punto di vista della vita quotidiana delle persone. Specialisti della materia come Massimo Livi Bacci lo hanno preannunciato e illustrato da decenni. Al gennaio 2017 la popolazione mondiale ammonta a circa 7 miliardi e mezzo di persone. Il Dipartimento Onu per gli Affari Economici e Sociali valuta a 230 milioni gli spostamenti che si verificano ogni anno. Non solo dall’Africa all’Europa. Da ogni continente verso gli altri, in misure e con effetti diversi. Il tema ha questo profilo, questa dinamica. Si dimentica che, nel 2016, se ne sono andati dall’Italia 115.000 italiani (per buona parte, neodiplomati e neolaureati). Fanno parte anche loro di quel che sta succedendo.

Se l’Italia vuole giocare un ruolo, non può che promuovere una politica delle alleanze. Non tanto per bilanciare uno specifico ambito territoriale, quanto per superare una visione: quella dell’establishment eurocratico. Quando Enrico Berlinguer parlava di eurocomunismo, per affrancarsi, giustamente, dal legame con l’Unione Sovietica, pensava ad un’alleanza tra Italia, Francia, Spagna. Quell’intuizione meriterebbe di essere ripresa a favore, oggi, di un euroriformismo. Se vogliamo davvero un’altra Europa, non più a trazione tedesca, occorre un peso territoriale, elettorale e politico, che sappia bilanciare il ruolo della Germania.

Ventotene non può ridursi ad un simbolo da brandire retoricamente; deve diventare un progetto da far vivere nella concreta esperienza del fare europeo. Perché una pluralità divisa si trasformi davvero in un’unità plurale. C’è un gran bisogno di avvicinare l’Europa al sentimento della gente. Di far volare l’acquilone in cielo tenendolo saldamente a terra.

Sia chiaro: la Germania è un Paese che ha fortemente lavorato su se stesso per diventare quello che è: una grande democrazia europea. Porta, nel suo vissuto, il trauma della repubblica di Weimar, con tutto ciò che ne è drammaticamente seguito, a partire dalla miscela di crisi economica, disoccupazione, svalutazione, instabilità politica, in una lingua nella quale debito e colpa si dicono con la stessa parola (Schuld). Un’ansia di conti in ordine che si fa ansiogena, producendo un’idea rigida di disciplina economico-finanziaria. Ma nella stessa tradizione culturale tedesca non sono mancate opportune riflessioni. E’ noto il discorso che Thomas Mann tenne, nel 1953, insistendo proprio su questo aspetto: non un’Europa tedesca, una Germania europea. Ulrich Beck (mancato prematuramente il primo gennaio del 2015) ha ripreso e sviluppato questo Leitmotiv. Membro del Gruppo Altiero Spinelli per il rilancio dell’integrazione europea, con un gioco di parole ha messo in guardia contro i rischi del Merkiavellismus. Da tenere a mente anche lo storico intervento di Helmut Schmidt al congresso dell’SPD del 4 dicembre 2011 a 93 anni (era nato il 23 dicembre 1918; è mancato, sempre ad Amburgo, la sua città, il 10 novembre 2015), già cancelliere, nonché direttore editoriale della Zeit, spiegava che: “Se noi tedeschi ci lasciassimo condurre, sulla base della nostra forza economica, a rivendicare un ruolo politico di direzione in Europa o anche solo una funzione di primus inter pares, una crescente maggioranza dei nostri vicini si difenderebbe decisamente contro questa prospettiva”. E aggiungeva: “La Repubblica federale tedesca (…) ha bisogno dell’inserimento nell’integrazione europea anche per la protezione da se stessa!”

A volte l’eccesso di tecnicalità fa dimenticare che l’Europa, nel corso degli ultimi oltre 70 anni, ha significato, in primo luogo, pace, aspetto tutt’altro che trascurabile, dopo il secolo dei due conflitti mondiali provocati dal contrasto franco-tedesco e dal nazi-fascismo: mentre chi oggi visita territori come l’Alsazia non distingue più la Germania dalla Francia. Non solo: l’Europa ha consentito di dare un futuro democratico ai Paesi usciti da regimi totalitari. Dalla Spagna al Portogallo sino a quelli usciti dall’esperienza del socialismo reale. Questa missione, politica, deve proseguire per colmare il deficit di fiducia tra i cittadini e le istituzioni europee. Ma l’Europa non è un’alterità. Mai dimenticare che l’Italia è tra i sei paesi fondatori, nel corso del tempo allargatisi sino al numero di 28, poi, con la Brexit, diventati 27 (19 quelli nella zona euro). Mai dimenticare che l’Italia partecipa a istituzioni come il Consiglio, la Commissione e il Parlamento, oltretutto con un numero significativo di deputati, comparativamente il maggiore nell’ambito del PSE, come viene spesso ripetuto. Mai dimenticare che l’Italia esprime una delle vicepresidenze della Commissione europea con l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza.

Il nostro Paese non può accontentarsi di rivendicare un ruolo, deve essere in grado di esercitarlo. Una sinistra di governo all’altezza delle sfide, oggi, sa che si scrive immigrazione, si legge politica estera; che il fenomeno in corso non dipende solo, ma anche dal fatto che sino a quando non vi sarà un’iniziativa – diplomatica e umanitaria – degna dei valori che l’Europa propugna, la sfida dell’immigrazione è destinata, non a risolversi d’incanto, ma ad aggravarsi. Diciamoci, con la dovuta franchezza, che la situazione libica è una delle concause della ricaduta sull’Italia del fenomeno migratorio, in queste forme, in queste proporzioni. Che non è accettabile, proprio per la dignità della persona, che quel territorio sia nelle mani degli scafisti, i nuovi schiavisti. Con fenomeni degenerativi, nei rapporti tra gli Stati, come dimostra l’atteggiamento dell’Austria, la quale, riportando le lancette dell’orologio indietro sino alle tristi vicende degli anni Trenta del secolo scorso, a parti rovesciate, minaccia di schierare dei mezzi corazzati al confine del Brennero, sino alle dichiarazioni del ministro dell’Interno Wolfgang Sobotka e del ministro degli Esteri Sebastian Kurz, il quale pretende di bloccare i migranti a Lampedusa. Per non dire dell’Ungheria di Orbán, con la richiesta, altrettanto irricevibile, di una chiusura dei nostri porti. Spettri che si aggirano nella propaganda di apprendisti stregoni di cui non si avverte alcun bisogno.

Non è finita: la Francia gioca la sua partita sino a intervenire direttamente nella crisi libica. Emmanuel Macron invita a Parigi, per un vertice, il presidente libico Fayez Serraj e il generale Khalifa Haftar per un tentativo di mediazione. Non è esattamente un’entente cordiale nei confronti del governo italiano; e dire che l’Italia, nel 2015, in tempo utile, allora tempestivamente, sembrava ad un passo dal poter conseguire l’opportunità di esprimere una propria personalità autorevole nel tentativo di dirimere, almeno sul piano politico, la controversa questione libica. E invece, come ha ricordato Stefano Passigli, si è verificato “l’errore compiuto dal governo Renzi nell’accettare che gli accordi Frontex prevedessero l’Italia come paese di primo accesso in Europa anche in caso di arrivo su navi battenti altra bandiera” (L’Europa ha un’unica scelta. Politiche nuove per l’Africa, “Corriere della Sera”, 19 luglio 2017).

Insomma, come si vede, la confusione sta superando il livello di guardia e va riportata al più presto a una condizione di sicurezza. La gestione del nodo immigrazione/politica estera presenta ampi margini di miglioramento. Non è rinviabile un’iniziativa all’altezza dei problemi, pur continuando ad affrontare, con responsabilità, le conseguenze del movimento migratorio, rappresentando, nelle appropriate sedi europee, le ragioni del nostro Paese. Precisamente in questo ambito si giocano, insieme, sia il rilievo dell’Italia nel Mediterraneo sia la qualità del progetto europeo. Come ha avuto modo di dire Pierluigi Bersani, è giunto il momento di puntare “i piedi contro il vergognoso egoismo di tre quarti degli Stati dell’Ue. C’è bisogno di un canale organizzato che selezioni e accolga, sennò il fenomeno non è dominabile. Altro che barattare la flessibilità o farci dare dei soldi. È ora che ci prendano sul serio, anche a costo di lasciare una sedia vuota, come De Gaulle nel 1965” (intervista al “Fatto quotidiano” di Ettore Boffano e Fabrizio d’Esposito, 20 luglio 2017).

 

Marco Macciantelli

Allievo di Luciano Anceschi, dottore di ricerca in Filosofia, già coordinatore della rivista “il verri”, agli studi e alla pubblicazione di alcuni libri ha unito l'impegno politico di amministratore pubblico.