Di Matteo, Riina e quell’incredibile e viscerale dibattito a sinistra

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Il dibattito che si è scatenato sulle sorti di Totò Riina, in particolare sui social, dimostra che abbiamo da affrontare una lunga e difficile battaglia culturale per restituire alla sinistra il suo vero volto. Lasciamo perdere che la Cassazione non ha detto che Riina deve essere rimandato a casa, e sorvoliamo pure sulla discussione che ne è derivata a proposito dell’ergastolo, anche se meraviglia che tanti compagni, almeno quelli dell’età giusta, abbiano dimenticato che in passato ci si schierò per la sua abolizione. Quello che più sgomenta è la visceralità del dibattito, avendo ormai perduto il pudore che un tempo impediva di parlare di pancia e costringeva ai ragionamenti ben argomentati.

La cosa appare davvero incomprensibile quando certe intemerate vengono da chi tiene ancora nella sua stanzetta il poster di Enrico Berlinguer se non addirittura di Palmiro Togliatti (non che altri leader, che so, Alcide de Gasperi o Aldo Moro, fossero fatti di pasta diversa). Si parla di pancia e si dicono sciocchezze con tutta serenità, rivendicando orgogliosamente il diritto di dar sfogo ai propri sentimenti.

Se è perdonabile Salvatore Borsellino per aver detto che si vuole liberare Riina (cosa, ripeto, del tutto fantasiosa) per pagare la cambiale della trattativa Stato-Mafia, lascia di stucco il gran numero di cittadini, di sinistra, che gli è andato dietro. Può una persona sana di mente pensare che ci sarebbe stata un’intesa per cui Cosa Nostra fermava le stragi in cambio dell’assicurazione che a 87 anni, dopo quasi 25 anni di carcere al 41/bis, il boss dei boss sarebbe stato rimandato a morire in casa a Corleone? Un’assurdità che farebbe solo ridere se, appunto, non trovasse tanti proseliti. I quali, evidentemente, non sapendo trovare una contropartita nella cosiddetta trattativa Stato-Mafia, non mettono in discussione l’impianto messo su dal duo Ingroia-Di Matteo, ma danno libero sfogo alla fantasia pur di tenere in piedi la loro traballante ricostruzione di quella fase importante della storia recente del nostro Paese.

Sono anni che l’opinione pubblica, anche e forse soprattutto quella di sinistra, recepisce acriticamente questo racconto delle vicende italiane, e sembra che solo pochissimi si accorgano della sua strumentalità. Perché dovrebbe essere chiaro che è sull’onda di questa “indagine” che Ingroia ha tentato la carriera politica, candidandosi nientemeno che alla presidenza del Consiglio, e che Nino Di Matteo è in procinto di seguire la stessa strada, puntando più modestamente al ministero della Giustizia.

Invece, ecco che si prendono sul serio gli attacchi a testa bassa che Di Matteo fa alla politica italiana con argomentazioni perfette per diventare un paladino dei grillini. Anche qui, su questo sito, ci sono compagni che pendono dalle labbra di Di Matteo, indicato perfino come uno “tra i massimi esperti internazionali in tema di lotta alla corruzione e di contrasto alla criminalità organizzata”. Un’esagerazione, dal momento che non si ricordano inchieste importanti per sconfiggere Cosa Nostra e ancor meno per combattere la corruzione. Non sono un suo biografo, ma di Di Matteo si ricorda soprattutto di quando partecipò alle prime indagini sulla strage di Via D’Amelio che portarono alla condanna all’ergastolo di sette innocenti. Sono stati liberati all’inizio di quest’anno, dopo averne passati 18 al 41/bis. E questo perché a suo tempo i pm, con l’unica eccezione di Ilda Boccassini, presero per oro colato le dichiarazioni di un falso pentito, Vincenzo Scarantino, senza fare alcun riscontro di quanto diceva. Un po’ quello che è successo al processo in corso sulla cosiddetta “trattativa”, che è partita dalle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito, e che ora è in carcere per aver commesso diversi reati. L’unico lascito del processo, da cui Di Matteo sembra avere una gran fretta di liberarsi, sarà quello di aver sporcato con schizzi di fango diverse personalità, tra le quali Giorgio Napolitano e Nicola Mancino, sempre con mezze frasi, allusioni, accuse basate sul solo sospetto. Un metodo che, almeno a chi è siciliano, è quanto mai familiare.

Paolo Corallo

Siciliano, giornalista in pensione, 65 anni, militante da quando ne aveva 15, non ha rinnovato la tessera del Pd dopo la caduta del governo Letta